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su Cult alle 22,45
Ballettistico lo stile del bravo Inarritu.Gioco continuo (e reiterato, in una
sfuggevole, impalpabile cinematografia dai risultati alterni), talora forzato,
di corrispondenze, coincidenze, simmetrie. Se si disattiva il rimando a tali
dualismi, assonanze, che minano la credibilità del prodotto, o, se, ancora
meglio, li si considera come semplice espediente narrativo frutto di una
articolata ricerca di originalità stilistica, ecco che vengono a galla storie
disgiunte, profondamente pessimiste, ritratti indelebili, sguardi a metà,
oniriche fotografie. Emozione placentare a piccolo dosi, qualche
impercettibile senso di pietà da parte dello spettatore. Rigido come una
roccia all’apparenza, profondo nei contenuti, Amores perros è l’evidente
cordone ombelicale tra tre storie di perdita circolarmente intrecciate,
sgualcito, sporco, grezzo. Semplicistica, ma paradossale l’attenzione alla
razza canina, che scandisce le vite, cuce le vicende. Gael Garcia Bernal,
talentuoso, muove le redini del primo, splendido episodio; il suo Octavio,
angustiato com’è da una realistica location messicana, odora dello sporco
della povertà, mantenendo quella signorile ma ribelle gradevolezza, molto
alla James Dean. Dal proletariato ghettizzato, violento, sfibrato del primo,
globale, asciutto, fotogramma, si passa allo smagliante mondo glamour
punteggiato di finte-liason, veri-tradimenti della modella di turno: il
dramma più opprimente dinanzi agli occhi. Inarritu fa intendere, delinea
quadri piuttosto compositi, ma non dichiara apertamente; dissemina indizi,
prove, fulminei riferimenti, ma lascia all’altrui interpretatio. Infine, meno
riuscito, ma dalla splendido stacco finale, molto lynchiano nella proiezione
verso un nuovo orizzonte di sofferenza simboleggiato da un tetro tramonto
liberatorio e profetico, il motiv dell’abbandono paterno e del senso di colpa
gravoso. Crepuscolare quanto basta, ha, tra i numerosi meriti, una regia
volutamente sfilacciata, innovativa, ribelle, personale.
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