Magazine Cinema
6.5 su 10
Una casa è delimitata da due alberi secolari maestosi, i cui nodi decantano un ossequio alla Natura, che è tipico della scrittrice Jane Austen. Un fiumiciattolo, d’acqua piovana ingrossato, separa la casa dalla terra altrui, di breve portata. Starnazzano le galline, i panni stesi ad asciugare, e, nell’interno, una certa morigeratezza dei tessuti e della conformazione architettonica, piuttosto incupita, con un grande camino mai acceso ed una sala da pranzo non di maniera, dalla tavola imbandita di pietanze succulenti ma poco aristocratiche. Più in là, separata dal mondo delle classi medie, un’enorme dimora: vetrate ampie, cassapanca, intarsi dorati di ispirazione neoclassica, lettere di pergamena ed un calamaio, la dormeuse e qualche libro, mentre si innaffia con le note del pianoforte un silenzio uggioso, e ci si dedica alla coltivazione di un eruditismo fine a sé stesso. La verve del romanzo, tipicamente british, la spregiudicatezza dell’eroina Elizabeth e l’ottusa inadeguatezza scomposta e scostumata della sua famiglia d’origine sono un piatto da cui la gradevolezza non riesce mai a distaccarsi. E per questo il cinema non fa altro che ritornarvi, in ogni epoca storica. La campagna non è ancora la città, e la ottusità crudele di Dickens e della storia di Wilde sono ancora lontane. Lo chiamavano “harmony-romance”, oggi è un passaggio obbligato per guardare a quel mondo con malinconia, per cogliere le sfumature e godere dello humour british, spesso chiamato in causa, anche indirettamente, dal cinema. Goffa, dal viso tipicamente campagnolo e con i lineamenti della fisiognomica inglese, la madre di Elizabeth è esilarante, boccaccesca, meschina, priva di scrupoli nell’assicurare un futuro da spose alle sue figliole, peraltro rumorose, sgarbate, capricciose. Il Signor Bennet, invece, è il personaggio meno riuscito, la cui personalità non ha una sostanza identificabile. Rispetto al romanzo, l’involuzione è evidente ed è il più grande limite della pellicola. Il Signor Collins, prelato “grottesco”, è inopportuno, petulante, e, fisicamente, non incarna il prototipo dell’uomo ideale. Il titolo ripropone la solita dicotomia che stringe la lama del sentimento amoroso: Elizabeth, identifica il suo cavaliere dall’apparenza, dalle dicerie, dall’atteggiamento altezzoso, dal ruolo che ricopre; Mr. Darcy, con una certa difficoltà, accetta di provare un sentimento verso una donna non del suo stesso rango. L’orgoglio appartiene ad entrambi, ma, consuetudine dell’epoca, è l’uomo che muove il primo passo. Joe Wright, all’esordioalla regia, prima dell’acclamato “Espiazione”merita un plauso, nonostante la patina e la necessità di condensare troppo (molto superiore la versione televisiva con Colin Firth ), brava Keira Knightley e per nulla compassato Matthew MacFadyen. Ma Judi Dench, con disinvoltura e poche battute, si conferma la mestierante con più capacità. Non ce ne voglia il Sutherland opaco. Visto che la Austen sta al cinema come il pane sta alla tavola, la notizia di un adattamento horror del suo “Pride & Prejudice”, nonostante le difficoltà che sta incontrando, è stata salutata (da me) con un inno di gioia. Chissà che questi personaggi così perfetti non possano essere degli zombie molto più credibili di quelli di Romero.
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