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tv.b. / 8 (carlos)

Creato il 04 maggio 2011 da Albertogallo

edgar ramirez in carlos

CARLOS

È un mondo disperato, grigio e pieno di tensione, il mondo di Carlos. Anni di piombo, di bombe, di attentati e rapimenti. Di buone cause annegate nei milioni di dollari e nella politica/diplomazia internazionale. È il mondo tetro degli anni Settanta-Ottanta, quello che già era stato portato su grande schermo, in tempo reale, da R.W. Fassbinder (Germania in autunno, La terza generazione…) e, nei decenni successivi, da Steven Spielberg in Munich, da Michele Placido in Romanzo criminale e da Uli Edel in La banda Baader Meinhof. Ma in questo caso la faccenda è diversa, lo schermo è piccolo, siamo in tv, nella tv di altissima qualità di una miniserie in tre episodi diretta dal francese Olivier Assayas.

Carlos. Come il protagonista assoluto della vicenda, al secolo Ilich Ramírez Sánchez, venezuelano, vent’anni da nemico pubblico numero uno per le polizie di mezzo mondo, “terrorista” rosso accusato di decine di omicidi, marxista votato alla (e pagato profumatamente per la) causa palestinese. È tutto perfetto o quasi in questo serial franco-tedesco da poco passato anche sui nostri teleschermi: la recitazione è di altissimo livello (il protagonista Édgar Ramírez se la cava alla grande), il ritmo è serrato, le scene d’azione, per quanto anti-spettacolari alla maniera europea, sono efficaci, e la messa in scena è di un’eleganza assoluta.

Mi preme, però, fare due considerazioni. Innanzitutto quella che si potrebbe chiamare la tentazione della bellezza o, più semplicemente, il rischio di mitizzazione del personaggio Carlos e dei suoi compagni. Dico questo perché, come spesso accade quando il cinema si trova ad affrontare personaggi ambigui, figure al confine tra ciò che chiamiamo bene e ciò che chiamiamo male, la “bellezza” del lato oscuro della forza rischia di avere il sopravvento etico ed estetico sulla narrazione, trasformando i protagonisti della vicenda in eroi maledetti. In questo caso l’errore è stato solo sfiorato, ma rimane in Carlos – sorta di incrocio impossibile tra Che Guevara e Johnny Depp – e nelle sue bellissime amanti un residuo di inutile fascino da rock star, laddove un pizzico di realtà in più (il vero Ilich non è certo dotato di grande fascino, nemmeno nelle sue poche immagini giovanili) avrebbe forse giovato allo spessore della vicenda, de-hollywoodianizzandola. Anche la seconda considerazione prende spunto da un errore schivato eppure in una certa misura percettibile, dal momento che, in questi tre episodi da un’ora e tre quarti ciascuno, sono talmente tante le location in cui si svolge l’azione che sembra quasi di assistere a un ennesimo prodotto da film commission in stile trilogia di Bourne: Parigi, Londra, Vienna, Berlino, la Siria, la Libia, BudapestCarlos tende a perdersi nei meandri dell’Europa e del Medio Oriente, sballottando i suoi personaggi in una serie di spostamenti che alla lunga risulta difficile da seguire. Forse se fosse stato eliminato qualche viaggio e se la sceneggiatura si fosse magari concentrata esclusivamente sulle tre o quattro operazioni più significative dei protagonisti il risultato sarebbe stato più godibile.

Rimane il fatto che si tratta di piccolezze, come piccoli e inutili risultano in fin dei conti tutti i discorsi che sono stati fatti sulla verosimiglianza del plot con gli accadimenti reali (persino il vero Carlos si è lamentato, minacciando di denunciare Assayas): si tratta di un film, non di un corso di storia contemporanea, e che alcuni fatti siano stati romanzati o liberamente interpretati per me ci può anche stare. La cosa importante è che Carlos sia un grandissimo e imperdibile prodotto di fiction televisiva, condito, tra l’altro, da un’ottima colonna sonora new wave (Feelies, Wire, New Order…) – musica che, come le imprese di Carlos, sa essere al contempo esaltante e deprimente.

Alberto Gallo



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