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Di che materia sono fatti i sogni di Coppola?Lo crederemmo l'opera prima di un giovane regista indipendente. E invece, questo Twixt così divertente, malinconico e audace, è l'ennesima prova dell'Altra giovinezza di uno splendido 73enne di nome Francis Ford Coppola. Un film fatto in casa, con un'equipe composta da amici e famigliari e un budget ridotto all'osso. “Una liberazione”dichiara sollevato l'autore, che troppe volte in passato si è trovato incastrato nel girone infernale di una maxi-produzione hollywoodiana. Lui che, credendo ingenuamente alla promessa della fabbrica dei sogni, lì cercò la sua personalissima fantasticheria. Quella di uno studio indipendente chiamato American Zoetrope. Peccato che il suo primo incontro con le nuove tecnologie elettroniche (con Un sogno lungo un giorno del 1982), risulterà indigesto a pubblico e critica: “E' come se Rembrandt dipingesse le uova di Pasqua” sentenzierà senza mezzi termini il New York Times. Un brusco risveglio. Coppola rimarrà ingabbiato negli impietosi ingranaggi della 'fabbrica' e sarà costretto a svendere il suo sogno ad un prezzo altissimo. Alto tanto quanto è lunga la cifra accordatagli dalla Paramount per riportare sugli schermi il terzo capitolo della saga del Padrino, che verrà bollato come il film più brutto della sua carriera. E così Coppola comprenderà che non può esserci sogno laddove vige solo il nudo e cieco raziocinio dell'industria.
Dio perde il verbo ma non il vizio C'è molto di quest'amara scoperta nel protagonista di Twixt, il mediocre scrittore di romanzi gotici Hall Baltimore (Val Kilmer, secondo per circonferenza soltanto a Sua Pinguedine Marlon Brando). Il Coppola segnato dall'esperienza del Padrino – Parte III, prosegue quel sogno lungo un decennio che, dopo l'aborto di Megalopolis, progetto di proporzioni bibliche naufragato agli inizi degli anni Duemila, lo ha visto dedicarsi a pellicole piccole ma molto, molto personali (Un'altra giovinezza e Tétro). E con Twixt sogna per davvero. Pare, infatti, che il regista abbia tratto l'ispirazione per la trama proprio tra le braccia di Morfeo. D'altra parte, la riflessione sull'ispirazione artistica è centrale. Si riprende la figura del poeta solitario, già cara all'universo gotico, con lo stereotipo del processo creativo come idillico rapimento mistico, salvo poi svilirlo nel prosaico ritratto di un romanziere di terz'ordine che si sporca le mani con il vil denaro, costretto dall'editore e dalla moglie inviperita a sfornare l'ennesima storiella di streghe, rimescolando all'infinito quei due ingredienti da horror di bassa lega che un tempo han fatto la sua fortuna. “The mist descends on the lake”, la nebbia scende sul lago. È l'unico incipit, già scritto e strascritto, che questo patetico Stephen King, lui sì annebbiato dai fumi del whisky, riesca a digitare sulla tastiera. Dai tempi del Vecchio Testamento (“In principio era il Verbo e Dio era il Verbo”), il divino si impone anzitutto come voce narrante. Ma qui siamo piuttosto in presenza di un narratore che manca la sua missione creatrice, si sente minacciato dalla pagina bianca e sembra aver smarrito il verbo nel fondo di un bicchiere. Non è la prima volta che Coppola gioca a sfigurare la religione. In Apocalypse Now e nel Padrino, era l'enorme mole di Marlon Brando ad incarnare, rispettivamente nei panni di Kurtz e del capofamiglia Vito Corleone, una controfigura grottesca di Dio. Immobile e logorroica, la divinità parlava invece di agire. I suoi ordini si concretizzavano nei crimini perpetrati dai suoi cherubini travestiti da gangster. Sia fatta la volontà del Padrino. Al confronto, lo scrittore appesantito Val Kilmer non è che un piccolo dio ridicolo.
Una storia di vampiri Siamo nella deprimente cittadina di Swan Valley, l'ennesimo buco di culo di un'America capace, secondo l'immaginario di certo cinema contemporaneo (Fargo dei fratelli Coen, ma anche i recenti Winter's Bone e La fuga di Martha), di svelare gli orrori più brutali. Qui lo scrittore sbarca per promuovere la sua ultima “fatica” narrativa. Incontrerà uno sceriffo smanioso di allori letterari, una ragazzina morta ammazzata con un palo conficcato nel cuore, una torre con un orologio a sette quadranti (ciascuno indicante un orario diverso, come nel racconto Il diavolo nella torre), una combriccola di giovani vampiri e, dulcis in fundo, il fantasma dolente e vagabondo di Edgar Allan Poe che, ad ogni sonno, lo accompagnerà alla ricerca del segreto della creazione poetica, con tanto di rivelazione dei retroscena sulla genesi poetica de Il corvo, e, in parallelo, in un viaggio verso i fantasmi di Swan Valley. Spiriti che, si intuisce presto, coincidono alla perfezione con quelli del tormentato scrittore e del suo nobile Virgilio, entrambi alter ego neanche troppo camuffati di Coppola stesso. Twixt richiama a sé tutti gli stereotipi della letteratura gotica, omaggia l'apprendistato horror alla corte di Roger Corman, strizzando l'occhio al b movie giovanile Dementia 13. Rispolvera il romanticismo che vent'anni fa aveva stravolto l'immagine tradizionale del vampiro. In Dracula di Bram Stoker, il mito di Nosferatu era riletto in chiave piagnucolosa, barocca e ultrasensuale. Con il suo strascico di porpora arabescata e la sua acconciatura a capitello o, in versione giovane, con gli occhialini fashion alla John Lennon, Gary Oldmanspargeva nei secoli le sue lacrime d'amore e scatenava tempeste, soprattutto ormonali. Ovunque si girasse, il mondo umano pareva dibattersi in un febbrile eccitamento. Oggi, il vampiro ha la bionda dolcezza virginale di Elle Fanning e gli aguzzi canini imprigionati in un metallico apparecchio per i denti. Quale magnifico incontro tra sublime e triviale!
Più di ogni altro cineasta della sua generazione, più dei sodali da Nuova HollywoodSpielberg e Scorsese, Coppola è stato, cinematograficamente parlando, il maestro dell'eccesso. Il gigantismo (nella gestazione, nella durata dei film, negli attori scelti, nelle ambizioni espressive e tecnologiche) è sempre stato il metro per quantificare la dismisura, o meglio il fermo rifiuto di una misura, delle sue opere. E anche se oggi sembrano lontanissimi gli imponenti affreschi degli anni '70, il principio della sovrabbondanza detta ancora legge nella produzione dell'ultimo decennio, pur così intima ed economica. Non ha limiti la freschezza anarchica con la quale Twixt accosta parodia (dell'horror in primis) e tragedia, per giunta autobiografica. Nel solco della migliore lezione shakespeariana, già in Tétro tutto si mischiava, il melodramma e l'opera, l'autobiografismo e il cinema di genere. Coppola lo sa, che quando si tratta di settima arte non si butta via niente di questo porco mondo. Perché è tra le faglie di un puzzle di riferimenti eterogenei, in bilico tra serio e faceto, che il regista ha raccolto in questi anni le sue vendemmie più interessanti. Twixt non sfugge alla nuova ricetta, e sbandiera fiero le sue imperfezioni ritmiche, la sua insolenza drammaturgica, all'insegna di un'imperfezione che è prima di tutto vitalità e modernità. A settant'anni suonati, scusate se è poco. Farsa e tragedia: il fantasma di CoppolaChe il mondo coppoliano fosse un continuo andirivieni di fantasmi e nostalgie, non era certo una novità. Basterebbe riguardarsi il meraviglioso e sottovalutato Peggy Sue si è sposata, per capire che, oltre la falsariga del time-travel-movie stile Ritorno al futuro, allora come oggi è il tempo, che nel suo scorrere inesorabile riporta a galla traumi e anime perdute, la vera ossessione del regista. Il fantasma che infesta i suoi sogni si chiama Gian Carlo. È il figlio che un incidente in motoscafo gli ha portato via tanti anni fa. Twixt, con le sue lancette di orologio impazzite, simboleggia il disordine di una temporalità diabolica, che fa morire i figli prima dei padri. Il tema della morte della giovinezza, evocato dal ricordo autobiografico, si moltiplica per tre. Nella figura di Virginia, scampata al massacro di un prete folle che, come Kronos nella mitologia greca (il riferimento è dichiarato da Coppola), uccide i suoi piccoli adepti per non vederli fuggire nelle braccia di altri. Nella fotografia di Vicky, la figlia del protagonista Baltimore, morta nelle medesime circostanze di Gian Carlo. Nell'eco della moglie di Poe, stroncata in giovanissima età dalla tubercolosi. Tra finzione narrativa, vissuto e letteratura. Il tutto virato in una palette di colori che prevede, per le sequenze oniriche, il bluastro dell'effetto notte abbinato a lampi di rosso e giallo, come quelli che già illuminavano il bianco e nero di Rusty il selvaggio. È però una sovrimpressione a pelo d'acqua, tecnica cardine dello stile del regista, a rendere evidente la triplicità del lutto. Baltimore e Poe, affacciati su un dirupo, osservano nel fiume prima il riflesso di Virginia, simbolo di tutte le infanzie rubate, e poi una sconvolgente messinscena dell'incidente di Gian Carlo. Come per Lars Von Trier, il cinema sembra assumere un potere catartico, con nulla da invidiare ad una seduta psicanalitica: l'emersione del rimosso, l'interpretazione dei sogni, i meccanismi di transfert che uniscono il regista e gli alter ego Baltimore e Poe nello stesso cordoglio. Prima di lasciarsi trasportare da frettolosi psicologismi, però, si consiglia di attendere il finale, che ovviamente non svelerò, anche se ne avrei una voglia matta. Già con il 3D, usato in appena due scene e annunciato dall'apparizione sullo schermo di un paio di occhialini, l'irriverente regista dichiara di volersi divertire. Non solo. A dispetto di un momento tanto doloroso come quello appena descritto della rupe, gli ultimissimi secondi di Twixt ci insegnano che sì, anche della morte ci si può prendere gioco e che sì, uno come Coppola se ne frega del patto di sospensione dell'incredulità, con il quale noi ingenui spettatori gli abbiamo dato fiducia all'inizio della storia. Vedrete un colpo di scena finale sorprendentemente precipitoso, talmente precipitoso da precipitarvi in un'incredulità ormai impossibile da sospendere. Non dimenticatevi che, in fondo, Twixt non è che un gioco da tavolo!
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