Avete presente Umberto D.? Vi ricordate il piccolo cagnolino che si tramuta in angelo salvatore nell’ultima commovente scena? Sessanta anni dopo la rappresentazione della solitudine umana passa ancora attraverso i cani, che in Tyrannosaur esercitano un’influenza opposta ma parimenti decisiva nella progressione degli eventi e nella risoluzione del dolore atavico dei protagonisti.
Anche Joseph è infatti diverso da Umberto: sessantenne vedovo, alcolista e con i nervi a fior di pelle, oppresso dai propri insuccessi e da una sempre più improbabile sopravvivenza, che si perde in ebbre zuffe di pub e quartiere. Non ancora privo dell’ultimo residuo di autocoscienza, dopo l’ennesimo atroce errore cerca rifugio nel negozio di Hannah, fervente cristiana dalla vita apparentemente perfetta, che caritatevolmente stabilisce un iniziale contatto con Joseph, che avrà enormi esiti imprevisti per entrambi. Due solitudini che si incontrano e che si cambiano la vita a vicenda, sai che novità. Ma Tyrannosaur non è un film convenzionale, a partire dalla disattesa progressione salvifica degli eventi e dall’impossibilità di risalire a ritratti stereotipati dei protagonisti grazie a uno studio psicologico memorabile sui soggetti. Ad attendere lo spettatore non c’è un happy ending politicamente corretto e cinematograficamente rodato a partire da soggetti simili, ma uno sgomento esemplare e una violenza ritualista, assurda e inspiegabile, perché connaturata all’essere umano.
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