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Ubaldo De Robertis - Se la luna fosse un aquilone

Da Ellisse

Ubaldo De Robertis - Se la luna fosse un aquiloneC'è una poesia ancora viva e vegeta in Italia che si rifà decisamente a una tradizione che va dal Petrarca almeno a Leopardi, e forse lì si ferma, dato che non è facile ritrovarci accenni non dico pascoliani o carducciani, ma certamente non si arriva, tranne rare eccezioni (soprattutto echi dei più grandi e perciò "inevitabili"), al secondo Novecento. Una poesia tradizionale, dunque, ma niente affatto epigonica, e forse nemmeno troppo lirica, che direi piuttosto coltivi una sua natura filosofica, come di uno che scriva i suoi versi sollevando ogni tanto lo sguardo dal foglio per lanciarlo al di là di una qualche siepe, e tenendo d'occhio al contempo i suggerimenti che provengono da antiche letture, per lo più classiche. Una poesia insomma umanistica, con qualche piacevole autocompiacimento stilistico che si ritrova in ciò che Mauro Ferrari chiama argutamente la "patina anticata di certi costrutti", e che tuttavia sospetto che includa un certa dose di ironia. Queste cose non le fanno i giovani, va da sé. Questo tipo di poesia ha sempre in sé una componente "matura", almeno più nel senso della fiducia  in una cultura che implicitamente esprime, e quindi in quel che dice, che nella convinzione un po' romantica di offrire delle sensazioni "sorgive" al lettore. di essere mediatrice del bello. Se il poeta è aedo o mediatore lo è - qui - con il mondo delle idee. Poichè, sebbene spesso l'ispirazione o la molla del dettato sia un fatto semplice o una  mera contemplazione della natura, il poeta di cui stiamo parlando non si sente il depositario di un dono da trasferire, ma semmai di un impegno a capire, a fare della poesia uno strumento elettivo di speculazione. E' naturale quindi che spesso la poesia contenga in sé o nella chiusa almeno una domanda (in cauda quaesitum, potremmo dire) che riguarda universalmente l'uomo, piuttosto che (*) una certificazione - come se ne legge troppe - dell'esistenza in vita del poeta medesimo. E' anche - quasi naturalmente - poesia assertiva e conservativa (non conservatrice), giacchè è denotata insieme e convintamente da una delicatezza di esposizione in cui primeggia una attenta scrupolosa selezione linguistica e da una scala di valori etici e culturali in cui il poeta dimostra di credere, e che vanno pertanto rispettati. Il poeta di cui sto parlando è Ubaldo De Robertis, classe 1942, pisano di adozione e di formazione scientifica ma marchigiano di nascita, che leggo in un paio di raccolte, "Diomedee" (Joker 2008), che preferisco, e "Se la luna fosse...un aquilone" (Limina Mentis 2012), che coprono un ampio ventaglio di esperienze di vita e di "impressioni". Di quel che dice Mauro Germani nei risvolti di "Diomedee" mi sentirei appunto di sottoscrivere l'accenno a una "matrice impressionista che secondo modalità tipicamente romantiche viene a costituire lo sfondo si cui l'Io si muove", ma con l'avvertenza, a mio avviso, che qui il romanticismo è temperato da una inquietudine modernamente wertheriana (quel che cerca il poeta è un "innamoramento", una riconciliazione costante con la vita), e che l'Io, nel vasto sfondo delle idee, è più defilato di quanto la sua presenza per così dire grammaticale faccia supporre. Ma sia che De Robertis parli d'amore o della luna, di un ragno o di un presagio, i fenomeni o gli epifenomeni vengono alla fine smascherati nella loro essenzialità da una coscienza affatto poetica, che non sospende il giudizio, senza che tuttavia (e qui sono d'accordo con Emilio Sidoti nella sua articolata prefazione a "Se la luna fosse...") l'occhio analitico dello scienziato, l'acribia dell'amante della parola precisa e culta raffreddi la carica metaforica delle cose o appesantisca il dettato. E' forse per questo che la nota di fondo di questa poesia è una intrigante antinomia tra due elementi entrambi veri, una certa "facilità" di lettura (di testi anche talvolta apparentemente semplici, musicali) e la persistente sensazione che ci sia rimasto ancora qualcosa, qualcosa di malinconicamente serrato, da capire. (g.c.)
(*) nota bene: qui "piuttosto che" è usato nella corretta maniera disgiuntiva.

da Diomedee
Temperie
Controcanti di tuoni
a mezz'aria
il vento scrolla
ciecamente svolge
su la obliqua via che il lampo definisce
le smarrite molecole dei sogni
Ali inghiottite da olivastre nubi
ansie si fanno voce
di variegate forme
Ruotano
nell' incerta aurora
sfuggenti stelle
Trapelano
raccolte da intimi disgeli
paure echi riverberi
di un fosco remigare
A G. Caproni
In tanti siamo tornati dove
non eravamo mai stati 
E
nulla era mutato...  
Nell'incerto chiarore
(c'era ancora il lume)
il cuscino di piume
il ruvido divano
e l'orlo dei bicchieri
che avevamo lasciato
per lidi lusinghieri
Tutto   ricordavamo
le sere d'esilio
stranieri di altre città
nel crudele delirio della nostra
inconsumata credulità
Come si può
Come si può mostrare una storia,
se la memoria soggiace e dileguano immagini
fra le rughe del tempo.
E poi non soffia più lo stesso vento,
solo polvere sulle coppe argentate,
gli errori ammessi, le malinconie.
I desideri cadono come tenere gocce di pioggia
che nessuno raccoglie,
e al ruscello vanno bisbiglianti, impaurite.
Come si fa a narrare una storia,
una storia di bruma
se io non so   cosa sono stato.
Ed ora
Ed ora che abbiamo negli occhi
le ombre dei giorni passati,
la solitudine ci stanca
come allora, la noia.
Sempre le stesse navi
sulla baia deserta,
sempre la stessa smania di lottare
senza averne il coraggio.
Cosa vuoi? Io, più niente
Le frecce del mio arco rassegnato
sul fondo della sacca quasi vuota
e la ruota delle idee accorte
s'è incagliata tra pesanti pensieri
e da ieri la voce continua
a volermi morto.
Quanti saremo a non lasciare traccia?
Tanti, tanti alla faccia dei sogni.
Assolto
Registri frugavo
imperquisibili
arrossiva la punta del naso
non accadeva da tempo
il vino caldo del sud
temevo
neppure adesso la trovo pulita
spiacente brav'uomo
qui l'anima non c'entra davvero
la mise alla porta
che fuori era casta
ma dentro..,
al vento le ciglia del gatto
sussultano lievi
di giudicarmi il bisogno
non sento.
Trasalgo
Trasalgo a volte accade
E il trasalire in questi lidi alle brezze
al battito d'ali di gabbiani, prima del buio,
più spesso mi commuove
Vedo un cielo di nubi passeggere,
leggere come parole nell'aria
Cogliendo le stelle, che conosco a memoria, sogno
di non chiudere gli occhi questa notte.
La mia fatica è...
La mia fatica è   reggere la testa
tra le mani di ghiaccio convincermi
di un qualcosa che conti rispettare le regole
rammentare il numero dell'autobus
/non ferma sempre allo stesso punto/
La mia paura è l'inchiostrò rosso che scolora
come i capelli come gocce d'urina sul carbone
la pelle slavata quando il sole imperversa
a cuocere la terra
La mia fatica è   togliere il sapone giallo
dalla schiena/grassa e mal lavata/
un frammento di carne tra i denti
salire all'altezza delle lampade
La mia paura è   che non ritorni il libro/dal prestito/
uscire dalla sala di lettura/senza ombrello/
chiedere il conto/rimpiangere il bordello/
sapere che tra milioni di bestie
l'unico ad avere un'anima è l'uomo
/è migliore d'ogni altra specie?/
La mia fatica è   ascoltare Mozart e non soffrire,
la prova generale della commedia
l'inventare me stesso/ogni volta/
accettare che tutto è annunciato
/come l'ultimo canto del cigno/
La mia paura è   incontrarmi seduto
/su di un paracarro/e rabbrividire
Prenderti tra le braccia
e cadere al suolo a piombo tramortito.
Tu sei   amore
Tu sei, amore, gracile germoglio, pistillo,
luce calda, nell'attesa, lamina d'agapanto
da sfogliare sotto il cielo indovino.
Arriva, amore, l'ora della notte.
Lo stupore nascondi.
È densa di parole la mia storia, contale,
conta pure i miei passi tra le righe del libro.
Ci rivela il mistero delle rondini che si baciano in volo,
intuendo le ombre dei cipressi,
curvando l'aria al loro passare,
conficcando nel fresco dei ruscelli i loro becchi sottili.
II battito stanco del mio cuore, s'è fatto silenzioso.
Appena percettibile avanza la lancetta
dell'orologio a muro.
Certe volte l'attesa mi fa tremare,
come il suono alla porta, un rabbuffo innocente di
vento,
il rauco sospiro, un ricordo impenetrabile
al momento di dormire.
E dimmi,   ti spogliasti lentamente?
Chiudesti il libro prima di sognare?
Cosa diranno gli elfi nel vederti assopita, e così bella.
da Se la luna fosse... un aquilone
Presagio
Fuori del mare...
   alberi svestiti di vele
la sferza dei venti che scompigli,
drizze di randa ed amantigli
schiume increspate
fremono   in muraglie
Sarà il nocchiere
creatura senza nome
   uomo dello scandaglio
non l'opera morta
non l'immersa carena
ad aprirsi in squarci
a cedere...per primo
Lo Sciamano
Hanno tinto sulla mia colonna il verde vertebrale
della corteccia e il rosso sulla chioma
disperso fiori raccolto frutti acerbi
/della mancata maturazione mi devo ancora rassegnare/
I merli mi hanno preso come simbolo
nidificano all'ombra dei miei rami tra le fronde
riparo chiuso   protetto
cinguettano sul bianco della fronte
dicono che sono uno sciamano
perché di notte canto alla materia
madre sostanza prima attraente
non all'arida mente inospitale
Ai loro occhi guarniti di letizia
il mio tronco affollato è accogliente
Un attempato albero sono diventato,
e i lombrichi ondeggiano tra le radici
in un continuo andare e ritornare tra presente e passato
Il vomere affondato   nei ricordi.
La cicala
Erosa dalla insurrezione
canta la cicala dell'anima
balla il diavolo nei miei sandali nuovi
si incurva la finestra strappata
alla tela del ragno
La formica muore d'inedia
tra le zolle della memoria
tra le molle serrate
del mio camino spento
Stelle lontane
Nel palcoscenico
de lo spaziotempo
tutto incurva
a misura di un arco
succube della gravità
cui neanche la luce può sfuggire
Ma qui...lontano dalle stelle
è tutto uno sgusciare disattento
un chiacchiericcio
e il divenire sferza
l'arcuato profilo delle ossa
chiude fuori il sentire
di astri in movimento
nell'immenso stellare
che l'ampio vuoto aduna
L'altro versante
Mostrare alla vecchia vista
il lato di un astro errante
Ascendenze di colori
che le altitudini tingono di luci estranee
se l'aria rarefatta s'allontana
e la bruma sovrasta la terra
dove ami celarti
quasi a farti dimenticare
che la voce tentenna appesantita
costretta a replicare
ad imitare la luce che si estingue
così come la vita
Quesito, al margine della sera
Nei tuoi   la frenesia
nei miei   la stasi
Occhi perduti
sui muri della stanza
Se anche la musica scolora
e solo all'aperto si ravviva
il roseto regale
quando di sguardi stillanti
si copriva e tinte rosso accese
Tu sai da quale mese
ho smesso di baciarti?
Se la luna fosse...un aquilone
Se la luna fosse... un aquilone
immaginate le mani tenere invisibili
di bimbi festanti a trattenerla
a reggerne ansimanti la briglia teneramente
in modo che sia Lei a stabilire dove stazionare
sul filo dell'arco blu nel fitto delle stelle
a restituire al firmamento il dovuto fermento
con il consenso dell' intero universo
assenso che trascina la nuova realtà 
nell'armonia- analogia del creato
dove tutto si accorda
metafora del cambiamento
dell'inaspettato rivelarsi dell'infinito
Se la luna fosse... un aquilone
occorrerà un nuovo linguaggio
per comunicare con l'aquilone- luna
senza che ciascuna cosa possa   adombrarsi
senza che si prefiguri uno strappo o l'esilio...
che solo resti il senso d'un silenzioso eloquio
che trasfigura un astro in un oggetto
fidando soltanto nella lievità   delle parole


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