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Uccidi il Messaggero: Rubén, Nadia e la Strage dei Giornalisti in Messico #MexicoNosUrge

Creato il 09 agosto 2015 da Vfabris @FabrizioLorusso

ruben-espinosa[di Fabrizio Lorusso da Carmilla] (C’è un appello che sta circolando e vale la pena leggerlo e aderire – link) Rubén Espinosa era un reporter, un fotografo scomodo per il potere che aveva lavorato per oltre sette anni nello stato messicano del Veracruz. Aveva 31 anni. Nadia Vera era un’attivista, antropologa del Chiapas e aveva frequentato l’università a Xalapa, capitale del Veracruz. Aveva 32 anni. Entrambi sono morti. Sono stati torturati e in seguito giustiziati con uno sparo alla testa da un gruppo di sicari. Nadia è stata anche violentata prima della fine. La notte di giovedì 30 luglio è stata l’ultima per Nadia e Rubén che l’hanno passata a chiacchierare con due amiche in un appartamento della colonia Narvarte di Città del Messico. Sono state uccise anche loro, le coinquiline di Nadia, e la domestica, Alejandra, che nella giornata del 31 luglio stava prestando servizio in casa delle ragazze. Sono state percosse, poi forse stuprate e infine freddate da un proiettile in testa.

La zona, colonia in spagnolo, Narvarte è nota come un quartiere sicuro e pulito, di classe media ma non troppo chic, vitale con le sue taquerias, le sue cantine per bene e i ristorantini aperti fino a tardi, anche se resta un’area prevalentemente residenziale. Si trova fra il centro storico e il rione coloniale di Coyoacán, nel sud dell’immensa capitale messicana. Venerdì mattina, 31 luglio nella via Luz Savignon le attività sono cominciate normalmente e nessuno avrebbe previsto che in uno dei suoi tanti condomini, al numero 1909 per la precisione, si stesse ammazzando atrocemente. Agli occhi di chi s’illude ancora di vivere in un’isola felice di civiltà e modernità gli orrori della narcoguerra messicana e della violenza paiono arrivare solo attraverso la televisione e comunque da regioni lontane e “selvagge” come il Guerrero, Ciudad Juárez, la frontiera col Guatemala o magari Veracruz.

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E invece no, la morte è proprio qui, in casa e sulla tua strada, questa volta: cinque ragazzi trucidati in un appartamento qualunque di un circondario placido e benestante. Da subito il massacro non passa inosservato, come purtroppo capita con tanti altri, perché non si tratta di un delitto “comune” o di un furto, come sta cercando di far credere la Procura Generale di Giustizia del Distretto Federale (PGJDF), ma di un pluriomicidio, cioè di quattro femminicidi e un omicidio che, oltre a essere crimini gravissimi, costituiscono in questo caso anche attentati contro la libertà d’espressione e di manifestazione. Secondo le denunce lanciate nei mesi scorsi da Rubén e Nadia, che erano consapevoli del pericolo che correvano, potrebbero essere coinvolti direttamente l’intorno politico e gli apparati di sicurezza del governatore di Veracruz, Javier Duarte de Ochoa. Crimini di genere, contro le donne, e nel contempo attacchi violenti e fatali contro attivisti e giornalisti che, a ragione, ripetutamente avevano segnalato le minacce ricevute e temevano per la loro vita.

Il giornalista e fotografo, collaboratore dell’agenzia Cuartoscuro e del settimanale Proceso, Rubén Espinosa Becerril, è stato freddato da un colpo d’arma da fuoco alla testa. Ma i segni sul suo corpo sono testimoni anche di torture e botte. Nadia Vera, attivista originaria del meridionale stato del Chiapas, e altre tre donne sono state violentate, torturate e assassinate con il tiro de gracia, uno sparo o “colpo di grazia” alla testa che si riserva normalmente ai nemici giurati o ai membri di gang rivali. In genere non è un sistema scelto a caso, anzi è un segnale, una minaccia rivolta all’intera società, ai media liberi e ai gruppi coinvolti.

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Nessun vicino di casa pare aver udito le detonazioni. O semplicemente si opta per non raccontare. Lo stato spesso non è capace di proteggere, come già comprovato in molti altri casi, per cui la fiducia in una denuncia o nelle istituzioni diminuisce. Nemmeno le urla dei ragazzi sarebbero state udite. Eppure lo scempio s’è consumato nel pomeriggio, dopo le 14:13, ossia dopo che Rubén ha inviato un SMS a un amico per dirgli che stava per andarsene dall’appartamento numero 401 di via Luz Savignon dove aveva passato la notte. Sette ore dopo, verso le 21, è stata un’amica delle vittime, affittuaria di una camera, a ritrovare i cadaveri abbandonati nell’appartamento. Esbeidy, infatti, era andata a dormire presto la sera prima perché il giorno dopo doveva lavorare e al suo ritorno, afine giornata, s’è trovata davanti i corpi senza vita delle vittime: uno in sala, uno nel bagno, due in una camera da letto e un altro in un’altra stanza. C’erano Nadia e Rubén, che appunto erano entrati in casa verso le 2 am e s’erano addormentati all’alba, ma anche la studentessa diciottenne Yesenia Quiroz Alfaro, una truccatrice originaria di Mexicali, nella Bassa California. E poi Nicole, una cittadina colombiana ventinovenne, e una donna quarantenne, la domestica, che risponde al nome di Alejandra.

Ma perché commettere un efferato quadruplo femminicidio e un omicidio in questo modo e in pieno giorno? Non per rubare i pochi gioielli e denari sottratti dall’abitazione, come pure ha ipotizzato la procura cittadina. E nemmeno pare verosimile l’ipotesi, avanzata negli ultimi giorni, secondo cui potrebbe esserci di mezzo “il narcotraffico”, vista la nazionalità colombiana di una delle ragazze vittima di femminicidio. Eppure la procura, sostenuta nelle sue elucubrazioni da alcuni mezzi stampa filogovernativi come il quotidiano La Razon, che tra l’altro ha ricevuto e diffuso in anteprima video e documenti che legittimano le narrazioni ufficiali, ha provato anche a far passare questa versione e sta investigando. “Non si scarta nessuna linea”, spiega il sindaco della capitale (Distretto Federale), Miguel Ángel Mancera, facendo eco al suo procuratore, Rodolfo Rios.

Dopo le numerose manifestazioni di piazza del week end, le denunce pubbliche di giornalisti e cittadini e le segnalazioni di istituzioni e organizzazioni internazionali di questi ultimi giorni la procura ha in qualche modo incluso anche una linea d’indagine legata al lavoro da fotoreporter di Espinosa e alle attività politiche di Nadia Vera nello stato del Veracruz. Si parla di elementi come “indizi e testimonianze” e della possibilità di far testimoniare chi potrà essere utile alle indagini. Dichiarazioni piuttosto blande che, solo per il momento, hanno dato una risposta alle interrogazioni dei giornalisti in conferenza stampa ma non alla società civile che annuncia nuove iniziative di protesta per le strade e uno sciopero nazionale il 14 ottobre. D’altronde la linea d’indagine legata all’attività giornalistica resta in secondo piano, non è stata aperta ufficialmente siccome avrebbe un costo politico e d’immagine altissimo. Quindi per ora la procura s’occupa solo dei reati di omicidio, femminicidio e furto, ma fa melina per quanto riguarda l’attacco alla libertà di stampa e i moventi politici e professionali del crimine.

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Gli stessi mass-media che speculano sui pregiudizi della gente e sulla nazionalità presuntamente “a rischio”, perché colombiana, di Nicole hanno anche inventato una presunta “festa”, smentita da una testimone, l’inquilina dell’appartamento sopravvissuta, e dai vicini, che sarebbe stata organizzata la notte prima della carneficina e a cui avrebbero partecipato anche gli assassini. Queste “ipotesi”, che spesso però diventano dei veri e propri depistaggi e manipolazioni dell’opinione pubblica, cercano di far sì che non si parli dei veri motivi che possono nascondersi dietro alle stragi.
In realtà Rubén e Nadia erano scappati a Città del Messico da Veracruz, dove vivevano e lavoravano fino a un paio di mesi fa, per via delle minacce che avevano ricevuto da parte di funzionari statali del governo di Javier Duarte, politico soprannominato el mata-periodistas, “l’ammazza giornalisti”, dato che sono una quindicina i professionisti della comunicazione uccisi nel corso della sua amministrazione nel Veracruz. In un video registrato da una delle telecamere piazzate fuori dall’edificio della zona Narvarte si notano tre uomini incappucciati che escono dal portone e si separano. Sono loro, per ora, i presunti colpevoli degli omicidi: uno cammina con una valigetta, uno se ne va a bordo di un’auto di proprietà della ragazza colombiana e l’ultimo si dilegua con una valigia più grande.

Bene lo sintetizza un estratto dall’appello #MexicoNosUrge che un gruppo di scrittori, intellettuali e giornalisti sta facendo circolare per poi inviarlo al Parlamento Europeo e al governo italiano affinché prendano posizione, condannino e sospendano i trattati che hanno col paese nordamericano: “Non è stato sufficiente fuggire a Città del Messico, considerata finora un porto sicuro in cui ripararsi dalle aggressioni contro la libertà di stampa. Il messaggio è chiaro: non si è sicuri da nessuna parte. Tutti i giornalisti critici devono avere paura perché possono essere raggiunti nelle loro case, torturati e ammazzati”. L’appello comincia col ricordare l’articolo 1 del trattato di libero commercio tra il Messico e l’unione Europea: “Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo” (qui il testo completo dell’appello).

Il massacro di giornalisti, fotografi e comunicatori professionisti di stampa, TV e Web non sembra avere mai fine in Messico. Dal 2000 ad oggi sono oltre un centinaio i giornalisti uccisi (Reporter senza frontiere ne ha contati 88, ma a seconda della fonte la cifra cambia, anche in base ai criteri secondo cui viene considerato un giornalista). Solo nello stato di Veracruz, in cui governa Duarte

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del PRI (Partido Revolucionario Institucional), partito del presidente Enrique Peña Nieto, si contano ben 18 omicidi dal 2000 e 15 dal 2010, anno d’insediamento dell’attuale governatore. Da anni il Messico è ai primi posti nella classifica dei luoghi più pericolosi per l’esercizio della professione giornalistica in compagnia di paesi in guerra come l’Iraq, la Libia, la Siria, l’Afganistan e la Somalia. Secondo l’organizzazione internazionale Article 19 le aggressioni contro la stampa nel primo semestre di quest’anno sono aumentate del 39,26% rispetto allo stesso periodo del 2014 e Veracruz rimane tra le regioni più pericolose al mondo per i reporter. Ci sono stati tre omicidi nel 2015 (Moisés Sánchez, Armando Saldaña y Juan Mendoza) e 18 dal 2000 ad oggi solo in questo stato (link video sui 15 giornalisti uccisi durante durante il mandato di Duarte:https://www.youtube.com/watch?v=ybpCVveH-no&feature=share).

“E va anche capito il constesto, chi è Javier Duarte de Ochoa: tu dagli un po’ di potere a un ignorante ed è questo quel che succede. Perché nemmeno ha consapevolezza del costo politico di niente. Regina Martínez, l’hanno ammazzata, e non è successo niente. Hanno appena ucciso pure Gregorio Jiménez, un altro giornalista, e non è successo niente. Quanti giornalisti assassinati abbiamo e non è successo niente?”, aveva denunciato Nadia Vera in un’intervista recente a RompeViento TV, un canale di Web-TV indipendente (link ultima intervista: http://rompeviento.tv/RompevientoTv/?p=2031) La reporter Regina Martinez lavorava come corrispondente da Veracruz di Proceso e fu assassinata a casa sua il 28 aprile 2012. Aveva 49 anni. Il suo caso commosse l’intero paese e da allora la rivista ha un banner sulla sua pagina web che ricorda quanti giorni sono passati dalla sua morte e l’impunità che ancora oggi regna intorno a quel crimine.
In un’intervista per il documentario “Veracruz: la fossa dimenticata” Nadia aveva aggiunto: “Ci inizia a preoccupare molto perché comincia a aumentare l’indice delle sparizioni dal 2010, con l’entrata di Javier Duarte al governo, la violenza comincia a esplodere; quindi ci preoccupa perché risulta che noi cominciamo a essere il prodotto di cui loro hanno bisogno. A te ti prendono come donna per la tratta, a te come studente per fare il sicario, sta qui il problema, siamo tutti noi che siamo un disturbo per il governo e per i narcos; siamo dinnanzi a due fronti di repressione, quella illegale e quella legale”.

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Le organizzazioni Artículo 19, Centro “Fray Francisco de Vitoria OP”, Centro Miguel Agustín Pro Juárez, Centro de Justicia para la Paz y el Desarrollo, Colectivo de Abogadas y Abogados Solidarios CAUSA, Fundar, el Instituto Mexicano de Derechos Humanos y Democracia, Propuesta Cívica, Servicios y Asesoría para la Paz, la Rete di organismi civili “Todos los Derechos para Todas y Todos” e Resonar hanno espresso la loro preoccupazione per la mattanza di venerdì, un “chiaro messaggio intimidatorio per tutti e tutte i giornalisti e le giornaliste”.

E’ stata lanciata una petizione su Change.org perché venga aperta un’indagine sul Governatore Duarte de Ochoa. Il testo invita la procura del Distretto Federale e quella generale della Repubblica a investigare Duarte e denuncia l’attacco contro la libertà di espressione. Se questo on viene fatto, si spiega, è perché si non si riconosce il legame molto probabile degli omicidi con le minacce ricevute per il lavoro che i due avevano svolto. Sono arrivate subito anche le condanne di Amnesty International, che ha definito come “necessaria” l’apertura di indagini sul lavoro da giornalista di Espinosa e, per il caso delle ragazze, a partire da una prospettiva di genere”, e dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha condannato i fatti e “se le indagini confermano che questo aberrante multiplo omicidio ha un nesso con il lavoro giornalistico di Espinosa, saremmo in presenza di un atto gravissimo contro la libertà d’espressione”.

Rubén viveva a Xalapa da più di sette anni e si dedicava a coprire i movimenti sociali e di protesta nella regione di Veracruz. Durante le manifestazioni contro il governatore per l’assassinio della corrispondente della rivista Proceso, Regina Martinez, gli era stato impedito di fare fotografie alla polizia che picchiava alcuni studenti e un funzionario governativo, probabilmente un poliziotto in borghese infiltrato, l’aveva afferrato per il collo dicendogli: “Smetti di fare foto se non vuoi finire come Regina”. La mattina del 9 giugno aveva notato una persona che lo teneva d’occhio e nel pomeriggio aveva visto, questa volta, tre persone in un taxi col motore acceso che gli scattavano fotografie. Uno di loro era lo stesso della mattina. Più tardi altri due uomini vestiti di nero l’hanno pedinato sotto casa (le denunce nell’ultima intervista rilas.ciata dal giornalista:http://rompeviento.tv/RompevientoTv/?p=2003).

Dopo ques’episodio Rubén era tornato a Città dal Messico dalla sua famiglia che risiede nella zona ovest, a Santa Fe. Si era rimesso a lavorare e, ancora il 28 luglio, a poche ore dall’uccisione, aveva pubblicato sul suo account di Instagram (espinosafoto) gli ultimi scatti di una manifestazione contro le espropriazioni per la costruzione dell’autostrada Naucalpan-Toluca, a nord della capitale. I suoi amici raccontano che, soprattutto per la mancanza di un’entrata economica fissa, stava pensando di tornare a Veracruz, ma anche a Città del Messico, comunque, era stato seguito costantemente e perseguitato. Moisés Pablo Nava, editore dell’agenzia di fotografi Cuartoscuro, ha confermato che Rubén sarebbe rimasto a lavorare con loro, dato che era stata avanzata un’offerta concreta di lavoro da parte dell’agenzia.

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Il governatore Duarte s’era particolarmente arrabbiato e pare avesse fatto comprare ed eliminare quante più copie possibile della rivista Proceso quando uscì un numero del settimanale che gli dedicava in copertina una foto di Espinosa in cui il politico è ritratto con un cappellino da poliziotto e campeggia il titolone “Veracruz: stato senza legge”. “Questo delitto segna Città del Messico. Il rifugio è stato violato. Le autorità, e specialmente il sindaco, Miguel Ángel Mancera, sono obbligati a chiarire l’assassinio del nostro compagno. Devono differenziarsi da quelle del governo di Veracruz, il miglior esempio del fatto che l’impunità sia sinonimo di morte”, hanno scritto i colleghi di Espinosa in un comunicato. E continuano: “Lui aveva denunciato minacce, pressioni e persecuzioni. Ha parlato con tutti i colleghi che ha trovato sul suo cammino e con i suoi datori di lavori e ha percorso tutte le redazioni e i media alternativi e le organizzazioni per la difesa della libertà di stampa per denunciare l’impossibilità di realizzare un lavoro giornalistico nel Veracruz, così come il clima di violenza che l’ha costretto a esiliarsi e abbandonare la vita che aveva costruito in quella regione. Anche la paura che aveva per i compagni che restavano nel Veracruz. Ma la violenza di Veracruz l’ha raggiunto nel Distretto Federale”.

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Le intimidazioni e la violenza contro i giornalisti sono solo uno dei meccanismi dello stato messicano, o almeno di varie sue parti e apparati, che vanno a reprimere la dissidenza sociale e a blindare la “democrazia”, gli investimenti, lo sfruttamento delle risorse, l’adesione alle politiche neoliberiste, il modello di paese voluto dalle élite e la sicurezza interna. Il contesto della guerra alle droghe, combattuta con una strategia di “mano dura” e militarizzazione dei territori che si ripercuote sulla popolazione civile, scardinando il tessuto sociale, e sui movimenti di protesta, crea un ambiente propizio per le ripetute violazioni ai diritti umani, denunciate ormai da anni da migliaia di persone e organizzazioni. Le desapariciones forzate, le sparizioni di cittadini messe in atto dalle autorità o dai gruppi criminali in combutta con queste che ammontano a 30mila casi negli ultimi 8 anni e mezzo, sono un altro meccanismo, così come lo sono le “esecuzioni extragiudiziarie” dell’esercito e dei vari corpi di polizia e la cosiddetta “fabbrica del colpevoli”, per cui il sistema di amministrazione della giustizia tende a fabbricare accuse e a incarcerare attivisti e cittadini delle fasce vulnerabili o esposte della società (donne, indigeni, studenti, abitanti di comunità rurali e quartieri o barrios marginali) valendosi di procedure autoritarie e abusive o di legislazioni speciali e repressive approvate ad hoc dai governi locali e nazionali. La società, in particolare i gruppi militanti che lottano per il cambiamento dal basso, si trovano quindi tra due fuochi: da una parte uno stato che non protegge ma minaccia o agisce contro di loro, e dall’altra la criminalità organizzata con cui lo stesso stato, a seconda dei casi, scende a patti o collabora. Senza dubbio anche il femminicidio, lo scempio e l’abuso del corpo delle donne e i delitti contro la libertà di stampa sono parte di un meccanismo che abbiamo visto all’opera in passato e ora di nuovo con il caso di Rubén e Nadia.


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