Posted 29 maggio 2014 in Russie, Ucraina with 2 Comments
di Pietro Rizzi
Si chiama Rinat Akhmetov ed è l’oligarca tra gli oligarchi ucraini, colui che possiede più di tutti e, come da regola consuetudinaria ucraina, conta anche più di tutti. Probabilmente molto più dell’altro oligarca tanto popolare in questo momento: il neo presidente Petro Poroshenko. Quest’ultimo, come abbiamo già avuto modo di dire, si occupa di dolciumi, mentre Akhmetov fa sul serio e si occupa di investimenti, di miniere, di industria pesante e, tanto per non essere da meno dei suoi colleghi russi, di calcio. Un oligarca vero, verrebbe da dire.
Con un patrimonio stimato di circa 12 miliardi di dollari, che lo posizionano tra i primi cento uomini più ricchi del pianeta, ha la base della sua fortuna proprio nel Donbass, la zona dell’Ucraina orientale con capoluogo Donetsk dove hanno luogo gli scontri che impazzano ormai da molte settimane. Si ipotizza che abbia sul proprio libro paghe, o meglio a libro paga della SCM, la società di cui è l’unico proprietario, circa 300.000 persone ed è quindi inimmaginabile che succeda in quelle zone qualcosa che a lui non piaccia e soprattutto è impensabile che possa avvenire una separazione, senza che lui l’abbia avallata, di quelle regioni che stanno all’Ucraina come la Ruhr sta alla Germania sia in termini strategici sia economici.
Akhmetov iniziò ad avere una certa popolarità a cavallo degli anni ’80, durante i quali si avvicinò molto ad Akhat Bragin uno dei capi della criminalità organizzata che ha imperversato nella regione. Non era un santo Bragin, e si può immaginare che non lo fosse neanche Akhmetov. Purtroppo, come funziona in Ucraina, gran parte dei fascicoli a suo nome sono misteriosamente spariti negli anni ed è quindi difficile dire con esattezza di quali reati sia stato colpevole, ma ci sarebbe da giurarci che non siano pochi.
Il suo mentore, il mafioso Bragin, salta in aria misteriosamente allo stadio nel 1995 e Akhmetov, che ne è l’erede spirituale oltre che economico, inizia la sua vita pubblica abbandonando, quanto meno di facciata, le attività illegali, preferendo i ben più redditizi acquisti a prezzo di discount di aziende privatizzate: quando partecipava all’asta, sempre che essa fosse pubblica, si sapeva che era meglio non prenderne parte per evitare rischi all’incolumità personale. Quelli sono gli anni in cui regna l’anarchia ed in cui il Donbass è una zona totalmente sotto controllo delle mafie locali e della criminalità organizzata.
Akhmetov riesce a spiccare sopra a tutti gli altri signorotti locali, riuscendo lentamente a prendere il controllo del Donbass e allontanando buona parte dei suoi competitor. Nel frattempo è anche colui che offre un numero maggiore di posti di lavoro e che porta benessere nella regione: una commistione tra malaffari e potere che diventa sempre più alla luce del sole e sempre più regolarizzata. Le azioni sporche non si svolgono più attraverso armi e regolamenti di conti, ma attraverso spostamenti di capitali in paradisi fiscali, attraverso acquisti di aziende a prezzi irrisori e mettendo propri uomini nelle posizioni chiave.
È Akhmetov che nel 1997 riesce a far posizionare un proprio uomo a capo della Regione di Donetsk; questo uomo aveva precedenti penali, non aveva alcuna preparazione culturale e faceva addirittura difficoltà a parlare in pubblico: si chiamava Viktor Yanukovich.
Akhmetov è riuscito ad impossessarsi lentamente di tutti i gangli dell’economia ucraina direttamente, o tramite suoi uomini, e l’elezione di Yanukovich, che negli anni ha fatto strada, è merito proprio dell’oligarca del Donbass, che lo ha finanziato e che lo ha saputo guidare fino allo scranno più alto dell’Ucraina. Peccato che poi Yanukovich abbia deciso di buttarsi sugli affari, e di intascare sempre di più fino ad innervosire lo stesso Akhmetov, che al suo delfino ha concesso tutto fino a quando non si è visto pestare i piedi. È lì che probabilmente ha iniziato a storcere il naso, ed è lì che sono iniziate le grane per Yanukovich. Certo, i due rimanevano amici e lo stesso Yanukovich prima di scappare in Russia l’ha voluto incontrare, ma Akhmetov – che non avrebbe fatto una guerra personale per difenderlo – l’ha di fatto liquidato. Gli affari per lui erano di certo più importanti di una sua creatura politica che si può sostituire facilmente.
Si può dire che abbia un certo fiuto, non solo per gli affari, e prima di prendere una decisione attende per essere certo che sia quella giusta. È per questo che probabilmente negli ultimi mesi ha tenuto i piedi in due scarpe, da un lato ha sempre asserito di essere a favore dell’integrità ucraina, di una forte autonomia per il Donbass ma sempre all’interno dell’entità statuale con a capo Kiev, ma dall’altro canto ha anche cercato di non inimicarsi i separatisti ben sapendo che qualora Putin avesse impegnato le sue forze per portare alla secessione la sua regione per lui sarebbe stato indispensabile poter affermare di aver aiutato i secessionisti. Non è quindi strano che Pavel Gubarev, uno dei capi dell’autoproclamato governo del popolo, abbia asserito che da Akhmetov siano giunti molti soldi a favore della causa. Ma Putin sembra aver voltato le spalle al progetto di secessione del Donbass ed Akhmetov, che sapeva che il Presidente russo sarebbe stato l’unico a poter avere più potere di lui nella regione, è tornato ad avere campo libero.
Ridottisi i rischi per un intervento militare russo Akhmetov ha così fatto due calcoli, gli stessi calcoli che lo avevano portato ad appoggiare, seppur nell’ombra come suo solito, il riavvicinamento a Kiev in cambio di una forte autonomia per la regione di Donetsk e Lugansk. Stare con Kiev significa, in questo momento, guardare all’Europa e la sua azienda ha più interesse ad avvicinarsi al ricco mondo finanziario occidentale, dove le regole sono chiare e dove si può presentare come un salvatore della patria, che essere uno dei tanti oligarchi in Russia e rischiare di vedersi mangiare una buona fetta del proprio mercato. E poi l’Europa e gli Stati Uniti, con il forte coinvolgimento che hanno avuto in questa brutta storia, dovranno continuare ad inserire nell’Ucraina liquidità, non potranno farla fallire anche per evitare che torni ad abbracciare Putin. Akhmetov ne è consapevole, e vuole gestire questi soldi da protagonista.
Ecco che ha rotto gli indugi e prima il 14 maggio dichiara che la causa separatista è sbagliata, e poi il 15 maggio porta in piazza a Mariupol numerosi lavoratori delle sue aziende per manifestare contro i separatisti. Miracolosomente a Mariupol non si spara più: Akhmetov può dove l’esercito fallisce! Non contento il 19 maggio, decisa ormai la strategia, va in televisione e dal canale “Ucraina” rilascia una dichiarazione che sembra più il discorso di un capo di Stato: critica i rivoltosi accusandoli di essere responsabili del genocidio di Donetsk e chiede ai suoi operai, così come a tutti gli operai, di avviare una pacifica protesta sul posto di lavoro ogni giorno, a mezzogiorno.
Akhmetov ha scelto, la pace aiuta molto più i suoi affari rispetto alla guerra, e l’Ucraina gli lascia maggiori possibilità di guadagno; l’autonomia che, con tutta probabilità, verrà concessa, lo renderà di fatto il capo indiscusso della regione senza troppi coinvolgimenti di Kiev.
Se fino ad oggi l’Ucraina sembrava in bilico, ora, con l’apparente accettazione dell’elezione di Poroshenko da parte di Putin e la discesa in campo di Akhmetov, si vede per la prima volta la luce alla fine del tunnel dopo mesi e mesi in cui la nazione è stata sull’orlo della guerra civile, se non dentro. Si spara ancora, ma i separatisti da soli possono ben poco e lo sanno, e al di fuori di azioni molto dispendiose in termine di vite umane non hanno grande possibilità di azione. Ci sono spazi per tornare alla normalità: quella normalità che in Ucraina significa oligarchia e poco altro.
A Novembre come oggi a Kiev comandava un oligarca ed in Donbass regnava Akhmetov. Oggi a Kiev c’è un nuovo oligarca ed in Donbass sempre l’uomo più ricco di Ucraina. Al cambiare degli oligarchi, il risultato non cambia: è così che va il mondo da queste parti!
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