Lo dice davanti alla porta del suo ufficio nella scuole dove ha prima studiato e poi insegnato tanti anni, ai tempi dell’occupazione sovietica, quando ancora l’Ucraina non esisteva che come una mera regione dell’immensa U.R.S.S. Allora c’erano migliaia di studenti, ora qualche centinaio e erbacce dappertutto. I giganti di cemento delle costruzioni della scuola sono per metà abbandonati, compreso l’ufficio della donna che quasi si commuove nel vedere alle finestre le tende che lei aveva portato per abbellire un ambiente di lavoro asettico e impersonale.
Il paradosso è che non si parla di un secolo fa ma di soli due decenni: l’anno prossimo infatti la nazione ucraina festeggerà soli 20 anni di vita, incredibile pensarci. L’indipendenza ha portato apertura dei confini, maggiore libertà, a qualcuno soldi e la possibilità di scegliersi una vita migliore altrove. Ma ha anche scaraventato una nazione appena nata e dall’anima comunista nelle braccia implacabili del consumismo più sfrenato che ha trasformato l’Ucraina in tre nazioni diverse, quella ‘senza scampo’ delle campagne, quella delle donne (e uomini) andate all’estero a lavorare che tornando nella loro casa non la riconoscono più, e quella dei privilegiati che se avevano soldi e potere prima oggi nessuno li ferma più, che possono permettersi di pagare un cappuccino 4 euro mentre un contadino guadagna 60-100 euro al mese spaccandosi la schiena a zappare la terra o congelando a -30 gradi nelle fattorie senza riscaldamento.
A questo penso mentre mi fermo a guardare la gente nella piazza simbolo della liberazione ucraina, Piazza della Liberazione a Kiev, immensa e minimalista come solo le grandi costruzioni sovietiche sanno essere, popolata di persone tanto diverse tra loro quanto le mille anime della nazione ucraina: innamorati che si schizzano con l’acqua delle fontane, lavoratori all’opera sulla grande statua che domina la piazza, poliziotti che parlottano guardandosi in giro, studenti che passeggiano libri sotto braccio, donne anziane con scialli sulla testa che portano voluminose sportine, uomini d’affari armati di valigetta e cellulare.
Sull’immensa lastricata di cemento tira un’aria fresca, è un piacere stare al sole a guardare il tempo scorrermi davanti agli occhi e materializzarsi in tutte queste facce. E all’improvviso ecco i cinque giorni passati tra i kolkoz di campagna apparirmi davanti agli occhi come in un sogno, come se non fosse vero il fatto di trovarsi nella stessa nazione, come se la fattoria dipinta di blu elettrico senza acqua corrente non sia a sole 10 ore di autobus ma a anni luce da qui.
Il nostro appartamento a Kiev costa 50 euro a notte, quasi quanto lo stipendio mensile di una delle sorridenti contadine viste chine nei campi ai pieni di enormi girasoli, il cappuccino che ho bevuto stamattina costa quanto pranzo e cena a base di borshch (la tradizionale zuppa ucraina a base di barbabietole), l’asciugacapelli che stasera userò consuma l’energia necessaria per dare almeno un po’ di tepore alle case contadine che non hanno il riscaldamento quando d’inverno la temperatura scende a più di 30 gradi sotto zero, con l’acqua che userò per lavarmi i denti ieri ci abbiamo lavato i piatti di colazione, pranzo e cena, la connessione a internet che sto usando ora è costata migliaia di fughe clandestine attraverso campi di rovi e fiumi infestati di sanguisughe di povera gente in cerca di una speranza di una vita migliore.
Questo il fascino e la bestialità dell’Ucraina di oggi.
[ Diario di Federica L. ]