Il nostro gruppo è formato da due inglesi, noi e una giovane combriccola di svedesi, forse in gita ‘scolastica’ perché furono proprio gli svedesi che per primi diedero l’allarme del diffondersi di pericolose radiazioni nell’aria del nord Europa in quella non poi così lontana fine di aprile del 1986.
Partiamo con un po’ di ritardo perché al momento di salire sul pulmino l’autista è costretto a far tornare indietro metà degli svedesi perché non sono vestiti appropriatamente: scarpe chiuse e pantaloni lunghi, capisco che fa caldo ma l’agenzia è stata chiara.
Un paio d’ore di strada da Kiev passate a sbirciare ogni cartello per vedervi scritto il fatidico nome: CHORNOBYL. La dicitura Chernobyl infatti è russa e qui dal 1991 finalmente si parla ucraino. Si pensa che sia proprio dal disastro di Chernobyl che lo spirito ucraino sia risorto dalle ceneri di anni di oppressione e abbia infine portato alla tanto agognata indipendenza.
Eccoci finalmente in vista del primo check-point che delimita la zona di alienazione di 30 km intorno alla centrale. Un poliziotto si avvicina con la lista dei nostri nomi datagli dall’agenzia, controlla i passaporti e si sofferma in particolare sui nostri: mi sa che non sono molti gli italiani ad essere arrivati fin qui.
Proseguiamo ed eccoci nella città di Chenobyl, in parte abbandonata, in parte tuttora abitata: guardo i panni stesi fuori dalle case e mi chiedo chi voglia abitare qui o chi non abbia altra scelta. Nel quartier generale delle visite guidate conosciamo la nostra guida, Maxim, un giovanotto carinissimo e brillante che la prima cosa che ci chiede è perché abbiamo scelto Chernobyl e non Santo Domingo, Cuba, il Messico… “It’s just a joke”… Dopo una piccola presentazione della gita e la richiesta della nostra firma sulla liberatoria che in sostanza solleva l’agenzia turistica di Chernobyl da qualsiasi responsabilità in caso di non rispetto da parte nostra delle regole (non avventurarsi da soli e seguire sempre la guida) e di sputtanamento delle apparecchiature elettroniche a causa delle radiazioni, partiamo per il giro.
Visitiamo prima la Chernobyl abbandonata: la posta, il Municipio, la statua di Lenin, lo stadio, la sinagoga (perché questa era una città prevalentemente ebraica), le carcasse dei carri armati con cartelli di “danger radiations” dappertutto. Maxim ci dice di non preoccuparci, che i cartelli sono stati messi lì solo per i turisti (quali??) e di seguirlo vicino ai cingolati. Al che estrae il suo contatore geiger e ci mostra come la radiazione vicino al nostro pullman sia normale (0.13/0.19 roentgen) e di quanto sia enormemente alta avvicinandolo ai cingolati in ferro dei carri armati, i primi mezzi ad intervenire dopo l’esplosione, ci dice. Guardiamo sbalorditi il contatore impazzire con un inquietante bip-bip a 7 roentgen!
Proseguiamo con la visita al vicino lago pieno di carcasse di navi (particolarmente pericolose perché fatte di ferro, materiale che più di tutti assorbe radioattività). Maxim scherza sul fatto che alcune carcasse non ci sono perché se le sono portate via i cinesi per fare le macchine che per questo costano così poco. E’ così che lui affronta la tragedia per sdrammatizzare e strappare una risata ai visitatori spesso attoniti davanti alla desolazione del disastro.
E’ arrivato il momento di vedere i reattori che ci appaiono all’improvviso all’orizzonte di una giornata limpida e tersa con il cielo gremito di suggestive nuvole tridimensionali che si specchiano nel canale che separa i reattori nn. 5 e 6 (in costruzione al momento dello scoppio) dai nn. 1, 2, 3 e il fatidico 4. Lo vediamo avvicinarsi nei finestrini del pullmino mentre Maxim ci invita a non fare foto se non quando saremo arrivati davanti al reattore, e anche lì a non gingillarci troppo ma a puntare l’obbiettivo solo verso il sarcofago: tutto è ancora un segreto in questo luogo universalmente conosciuto come una delle più grandi sconfitte sovietiche dal punto di vista energetico e soprattutto umano. Infatti nessuno divulgò la notizia di ciò che veramente era successo. Agli abitanti di Prypiat, la città a 2 km da qui dove vivevano i dipendenti della centrale con le loro famiglie, nulla fu detto se non la settimana seguente, come nulla sapevano i milioni di abitanti di Kiev che quel primo maggio del 1986 sfilavano per le strade della città per la festa dei lavoratori, quando la radiazione era al massimo della pericolosità. Come ho detto fu la Svezia a dare per prima l’allarme e a fronte dei dati svedesi Gorbacev non ebbe più scampo se non la verità… o la mezza verità che ancora circonda il disastro. Ad esempio qui c’è tanto di monumento alla memoria dei 29 vigili del fuoco che accorsero pochi minuti dopo lo scoppio per spegnere le fiamme di quello che credevano un semplice incendio (morirono tutti dopo pochi giorni di agonia) ma non c’è nulla sulle decine di migliaia di liquidatori che nelle settimane successive lavarono le strutture e raccolsero le scorie intorno al reattore per inglobarle nel sarcofago di cemento e acciaio che vediamo oggi. Potevano stare all’aperto solo 40 secondi e poi dovevano correre a liberarsi delle pesanti tute di piombo improvvisate che poco facevano contro la letale quantità di radiazioni.
Guardo il reattore davanti a me con gli occhi delle molte letture fatte prima di partire e le orecchie a Maxim e al suo contatore geiger che non fa altro che fare bip-bip… Non riesco quasi a credere di essere qui… la mente fatica a collegare la realtà con il sogno, quasi mi trovassi di fronte ad uno sfondo cinematografico non al reale SARCOFAGO DEL REATTORE NUMERO 4 DI CHERNOBYL.
Non sono ancora riuscita a riordinare i pensieri che è ora di andare per raggiungere il cuore della visita, la città di Prypiat appunto, l’ombra della fiorente città che fu. Attraversiamo il ponte da cui Maxim ci dice che gli abitanti videro il fuoco sulla centrale la notte del disastro e ci inoltriamo a piedi tra gli scheletri di cemento della città. L’albergo, la scuola, la biblioteca, la palestra, il cinema, la piscina, il supermercato, il parco giochi: tutto parla di assoluto abbandono e decadenza delle vite e delle generazioni che il disastro si è portato e si porterà via per chissà quanti decenni. Una bambola abbandonata nella piazza, una scarpa ai piedi della famosa ruota panoramica, un cucchiaio nella mensa della scuola, una lavagna ancora coperta di scritte, un montagna di maschere antigas abbandonate qui dai liquidatori (che in realtà poco possono fare contro una tale quantità di radiazioni), un tappeto di libri su cui fatico a camminare, una betulla cresciuta in cima all’edificio più alto della piazza principale.
Maxim ci invita a seguirlo su e giù per gli edifici e a non fare di testa nostra e inoltrarci dove vogliamo perché la radioattività cambia ad ogni passo. Il suo contatore sempre acceso ci mostra la strada alla larga ad esempio da una giostra in ferro del parco giochi o da un accumulo di muschio: non si sa mai dove questa morte invisibile si possa nascondere. Pericolo vero però non ce n’è per noi visitatori ‘temporanei’ e ce lo dimostra la macchina che misura la radioattività di scarpe e mani attraverso la quale dobbiamo passare per uscire dal sito: verde per tutti, siamo sicuri, lindi e puliti, possiamo tornare alle nostre vite tranquilli ma con quel qualcosa di consapevolezza in più che non guasta mai in un mondo che purtroppo si dimentica di tutto troppo in fretta. E Maxim che qui ci lavora tutti i giorni?…
[ Diario di Federica L. ]