Posted 9 marzo 2014 in Slider, Ucraina with 0 Comments
di Massimiliano Di Pasquale
Potemkin chiamava la Crimea “la verruca sul naso della Russia” e ancora fa male. Se dovesse scoppiare una guerra civile in Ucraina, molto probabilmente inizierebbe in Crimea”.
Così scriveva Anna Reid, corrispondente da Kiev dell’Economist, nel suo saggio Borderland. A Journey Through the History of Ukraine nel 1997. Con l’aggravarsi della crisi tra Kiev e Mosca, le parole della Reid, tra i primi giornalisti occidentali a occuparsi di Ucraina, sembrano drammaticamente attuali.
A pochi giorni dalla destituzione di Yanukovych avvenuta sabato 22 febbraio, dalla liberazione dell’ex premier Yulia Tymoshenko e dalla nomina di un presidente, Oleksander Turchinov e di un primo ministro Arseniy Yatsenyuk ad interim, giovedì 27 febbraio il presidente russo Putin inviava un contingente militare in Crimea, penisola che dal 1954 fa parte dell’Ucraina, violando la sovranità territoriale del paese.
L’invio di altre truppe il 1 marzo, votato dalla Duma, la camera bassa del parlamento russo, ufficialmente “per stabilizzare la situazione in Crimea e utilizzare tutte le possibilità disponibili per proteggere la popolazione russa della Crimea da illegalità e violenza”, veniva considerato dall’esecutivo di Kiev una grave provocazione e il preludio a un possibile conflitto armato tra Russia e Ucraina.
Per questo motivo il premier Yatsenyuk, dopo l’arrivo del primo contingente di soldati russi, invitava l’esercito ucraino in Crimea a non reagire e chiedeva immediatamente aiuto alla comunità internazionale.
Lo scenario, già anticipato un mese fa a Hromadske TV dall’economista ed ex consigliere di Putin, Andrei Illarionov, ai tempi in cui il presidente russo sembrava voler imprimere al suo paese una svolta liberale in politica ed in economia (poi mai concretamente realizzata), ricalcherebbe da vicino quello georgiano. Creare un incidente ad hoc contro un cittadino di passaporto russo, incolpare l’esercito ucraino e fornire quindi un pretesto per l’invasione.
In Ossezia del Sud nell’agosto del 2008 il presidente Mikheil Saakashvili, ordinando al suo esercito di intervenire per porre fine ai bombardamenti di villaggi georgiani da parte delle forze separatiste ossete, che duravano ormai da giorni, offrì il pretesto ai carri armati russi per invadere la Georgia.
La crisi di questi giorni tra i due paesi, la più grave nell’area post sovietica dal crollo dell’URSS, nasce dal successo di euromaidan, la rivolta popolare che ha sconfitto il regime di Yanukovych che nelle ultime settimane aveva assunto un volto sanguinario con l’uccisione di un centinaio di manifestanti.
Le dimostrazioni di piazza dei mesi scorsi, che pur avendo come epicentro Kiev, hanno interessato tutta l’Ucraina, da ovest a est, da nord a sud, testimoniano la volontà degli ucraini di lasciarsi alle spalle l’epoca post-sovietica e di aprire una nuova fase, quella della rigenerazione morale.
Questo ambizioso tentativo deve fare i conti al momento sia con la volontà di Mosca di ostacolare in ogni modo un progetto che, se vittorioso, porrebbe la parola fine alla sua “unione euroasiatica” e fornirebbe linfa vitale anche all’opposizione democratica russa, sia con difficoltà interne legate alla gravissima situazione economica del Paese a un passo dal default.
Affinché l’Ucraina possa vincere questa sfida occorre che Europa, Canada e Stati Uniti la sostengano finanziariamente con un piano mirato di prestiti e investimenti e che la comunità internazionale, in questa delicatissima fase, garantisca con ogni mezzo la sua integralità territoriale ottemperando al memorandum di Budapest. Con quell’accordo, firmato il 5 dicembre 1994 nella capitale ungherese, l’Ucraina cedeva il suo arsenale nucleare in cambio della garanzia della tutela della sua sovranità e sicurezza da parte di Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti.
Se il Cremlino riuscisse a creare un’enclave separatista in Crimea, ciò potrebbe innescare pericolosi effetti domino nell’est del paese. Per scongiurare questo scenario è necessario che il governo di Kiev costituisca un gruppo di lavoro interparlamentare con il parlamento di Simferopoli per aumentare ulteriormente l’autonomia della Crimea e si impegni a smascherare le manipolazioni mediatiche della stampa e delle televisioni russe.
Nonostante la Russia non sia più l’impero del male degli anni della Guerra Fredda è innegabile che nel periodo della presidenza Putin il giro di vite sulla stampa indipendente ha favorito il ritorno a metodi di propaganda neo-sovietica in linea con una lunga tradizione di manipolazioni e distorsioni della realtà.
La macchina ben oliata della disinformacija ha favorito anche in Italia la diffusione di notizie false come quella che dipinge i manifestanti del Maidan come fascisti e antisemiti o quella secondo cui il nuovo governo ad interim avrebbe negato agli ucraini il diritto di parlare russo.
Tornando alle sfide di carattere interno, una volta conclusa questa fase di emergenza, la più importante è quella legata alla formazione di una nuova classe dirigente che sappia governare il paese senza commettere i gravi errori del passato. Il messaggio del Maidan è chiaro e inequivocabile. L’Ucraina vuole chiudere con un ventennio caratterizzato da corruzione, lotte tra oligarchi e riforme mancate.
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