Ucraina, le elezioni della discordia

Creato il 27 maggio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Oleksiy Bondarenko

Domenica 25 maggio, quasi cento giorni dopo la caduta di Yanukovich, si sono svolte in Ucraina le tanto attese elezioni. In un clima da guerra civile, i cittadini si sono recati alle urne per eleggere il nuovo Presidente che dovrà cercare di rimettere in piedi un Paese al collasso. Non ci sono state sorprese e, come atteso alla vigilia, ha trionfato il candidato che ha saputo sfruttare a suo favore l’instabilità dell’ultimo periodo. Petro Poroshenko, il “magnate del cioccolato”, è riuscito ad aggiudicarsi circa il 54% dei voti, con un distacco piuttosto netto sulla principale rivale, Yulia Timoshenko (che ha ottenuto solo il 13%). Il risultato ottenuto permette a Poroshenko di diventare il nuovo capo di Stato ucraino già dopo il primo turno, senza dover attendere il secondo, fissato per metà giugno. La rivale sconfitta ha comunque ancora qualche carta da giocare: la maggioranza in Parlamento e un possibile appoggio degli oligarchi delle regioni centro-orientali del Paese (proprio quegli oligarchi contro i quali si è scagliata la Timoshenko durante la campagna elettorale), come Ihor Kolomoisky, nominato proprio dal nuovo governo di Kiev come governatore della regione di Dnepropetrovsk, potrebbero permettere alla Timoshenko di concorrere per ruoli di rilievo all’interno delle strutture di potere del nuovo Presidente. Sembra piuttosto improbabile, invece, che la “passionaria” della rivoluzione arancione si rivolga un’altra volta alla piazza, non riconoscendo i risultati e accusando il rivale di brogli e irregolarità. Nonostante il suo carattere e l’estrema determinazione, Yulia ha un esperienza politica tale da saper riconoscere l’opzione più conveniente. Il luogo della futura battaglia politica sarà la Verhovna Rada, dove Patria ha la maggioranza, e la Timoshenko lo sa benissimo.

Il vincitore – Petro Oleksiyovych Poroshenko è una personalità piuttosto nota in Ucraina e ha alle spalle una carriera politica di primo livello. Nato ad Odessa, dopo aver concluso i suoi studi in economia presso l’Università Statale di Kiev Taras Shevchenko, inizia la propria attività imprenditoriale nel settore alimentare-dolciario. Sfruttando l’instabilità e le turbolenze in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, entra in possesso di numerose aziende statali che diventano la base del suo futuro impero. Considerato uno dei dieci uomini più ricchi del Paese, Poroshenko intraprende la propria ondeggiante carriera politica nel 1998 quando viene eletto per la prima volta alla Verhovna Rada. Negli anni successivi il “magnate del cioccolato” basa la sua longevità politica sul proprio impero economico e sulle doti camaleontiche. Fonda alcuni schieramenti politici (come il Partito della Solidarietà) e partecipa attivamente alla nascita del Partito delle Regioni (il partito di Yanukovich). Durante la presidenza di Viktor Yushenko (rivale dello stesso Yanukovich) ricopre il posto di Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale e di Difesa e quello di Ministro degli Esteri durante la premiership della Timoshenko (2009-2010). Considerato uno dei principali sostenitori della rivoluzione arancione, anche grazie alla grande copertura mediatica che ne ha dato il suo canale televisivo, Kanal 5, dopo la disastrosa fine della presidenza di Yushenko e la sconfitta elettorale della Timoshenko nel 2010, riesce a mantenere un posto di rilievo all’interno del panorama politico nazionale anche con Yanukovich, diventando capo del Consiglio della Banca Nazionale ucraina prima e assumendo il ruolo di Ministro del Commercio e dello Sviluppo Economico poi (2012).

Le capacità politiche di Poroshenko sono state piuttosto evidenti anche durante le prime manifestazioni scoppiate in seguito alla mancata firma dell’Association Agreement tra Ucraina e UE. Pur sostenendo e finanziando il movimento di protesta che ha assunto il nome di EuroMaidan, l’oligarca di Odessa ha sempre limitato le proprie apparizioni pubbliche cercando di assumere una posizione piuttosto moderata. Non entrando a far parte del nuovo governo che si è insediato a Kiev dopo la fuga di Yanukovich, inoltre, Poroshenko è riuscito a guadagnarsi l’appoggio sia del “mondo economico” ucraino, che vede con diffidenza il ritorno della Timoshenko e la sua retorica anti-oligarchica, sia dell’elettorato moderato, deluso dagli esiti del cambio di regime e desideroso di stabilità.

Risultati al 26 maggio 2014 – Fonte: Ria Novosti

Il voto – Le elezioni, fortemente volute dal governo di Kiev e apertamente sostenute da Washington e Bruxelles, nonostante l’apparente soddisfazione generale, hanno evidenziato seri problemi e criticità. Innanzitutto, come prevedibile, il voto non si è svolto nella maggioranza delle circoscrizioni delle due autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. L’operazione anti-terrorismo, lanciata da Kiev per riportare l’ordine nelle regioni orientali del Paese, non ha fatto altro che ampliare le distanze tra il governo centrale e i gruppi separatisti. I referendum che si sono svolti nelle due oblast l’11 maggio scorso, nonostante le debolissime basi legali, hanno avuto l’effetto politico di allontanare il Donbass [1] dal controllo del governo centrale. Secondo le fonti ufficiali della Commissione Elettorale Centrale, solo due circoscrizioni (su dodici) hanno potuto partecipare al voto a Lugansk e sette su ventidue a Donetsk.

La partecipazione popolare è stata piuttosto alta nella parte occidentale del Paese dove nella regione di Lvov si è registrata un’affluenza del 77%. Cifre completamente diverse emergono, invece, nelle regioni di Donetsk e Lugansk, dove solo il 11-13% ha preso parte al voto. Più bassa, rispetto alle regioni occidentali, è stata l’affluenza nella parte sud-orientale del Paese dove, ad esempio, nell’oblast di Odessa ha preso parte al voto solo il 45,6% della popolazione e in quella di Kharkiv il 48,9%.

Regolarità – Verificare l’effettiva regolarità del voto sembra oltremodo difficile. I numerosi osservatori internazionali, stanziati soprattutto a Kiev e nelle regioni occidentali del Paese hanno definito il voto come libero e regolare, ma numerosi dubbi rimangono sul suo effettivo svolgimento. Casi di intimidazione si sono verificati a Kiev e in altri centri urbani. La Commissione Elettorale della capitale, ad esempio, secondo le fonti di Russia Today è stata circondata dagli attivisti dell’autodifesa di Maidan, che si sono auto-offerti di difendere il palazzo, mentre a Nikolaev una telefonata anonima ha fatto scoppiare l’allarme bomba in almeno sei sedi elettorali. Quasi impossibile verificare la regolarità nelle poche circoscrizioni che vi hanno preso parte a Donetsk e Lugansk e in molte altre regioni orientali dell’Ucraina come a Kharkiv e Dnepropetrovsk, dove la presenza degli osservatori è stata meno intensa e la partecipazione degli attivisti anti-Maidan più concreta.

Al di la dei singoli episodi, però, rimane piuttosto difficile credere che elezioni svolte in un contesto di aperto confronto e di vera e propria guerra civile possano essere considerate libere e democratiche e restituire un risultato comunemente accettato. Il riconoscimento da parte delle cancellerie occidentali non aggiunge niente di nuovo, anche perché appariva piuttosto preventivabile già prima del reale svolgimento delle consultazioni. D’altra parte queste elezioni sono state fortemente sponsorizzate e sostenute da Washington e Bruxelles che hanno da mesi scommesso sulle presidenziali di fine maggio come la principale strada verso la stabilizzazione della situazione in Ucraina.

La posta in gioco – Le elezioni presidenziali non evidenziano solo la polarizzazione della crisi Ucraina, ma anche le contraddizioni dei principali sostenitori occidentali dell’EuroMaidan. Il sostegno alle elezioni e il loro immediato riconoscimento da parte di Bruxelles e Washington fanno sorgere numerosi, legittimi, dubbi sulla validità dell’approccio occidentale nei confronti dei Paesi in via di democratizzazione. Il nuovo Presidente ucraino appare un ottimo “schermo” per mascherare la disunione e l’irrazionalità della politica estera europea e i suoi fallimenti a Est. Le sanzioni nei confronti di Mosca, accusata di aver fomentato i disordini, non hanno fatto altro che peggiorare la crisi, limitando le possibilità di risolvere le contraddizioni tramite la via del dialogo.

Ma la crisi ucraina ha avuto anche l’effetto di sottolineare le difficoltà in politica estera dell’amministrazione Obama. Incapaci di risolvere i problemi in Afghanistan e in Iraq, sconfitti politicamente in Siria, ancora poco influenti in Asia, in quello che doveva essere il quadrante prioritario del secondo mandato di Obama (il famoso Pivot to Asia), gli Stati Uniti hanno dimostrato tutta le loro difficoltà anche nel caso ucraino. Le guasconate di Kerry (che ha più volte usato toni piuttosto bruschi nei confronti di Mosca, non ultime le accuse mosse a Russia Today) e le continue minacce di sanzioni, hanno, paradossalmente, spianato la strada all’azione di Putin, forte di un crescente consenso interno e capace di sfruttare la strategia del “nemico esterno” per promuovere la coesione nazionale e gli interessi strategici del Cremlino.

Unione Europea e Stati Uniti, incapaci di promuovere una politica coerente, fatta eccezione per le sanzioni nei confronti di Mosca, hanno dimostrato tutte le loro contraddizioni interne, evidenziando, in un certo senso, un approccio ideologico in riferimento alla questione ucraina.

Mosca dal canto suo ha avuto modo di comprendere e valutare la posta in palio nella crisi ucraina. Nonostante l’uso retorico e strumentale di alcuni elementi chiave estrapolati dall’EuroMaidan, come la presenza di formazioni para-militari fasciste (né è esempio Praviy Sektor), l’illegittimità del governo instaurato a Kiev dopo la fuga di Yanukovich e la questione linguistica, il Cremlino ha cercato di utilizzare in tutte le fasi della crisi le armi che ha a propria disposizione.

A differenza di Stati Uniti e UE, Mosca non possiede la stessa forza attrattiva che gli possa permettere di raggiungere i propri interessi. Lo squilibrio in quello che Joseph Nye definisce come soft power in “Il paradosso del potere americano”, viene però bilanciato dall’uso razionale di altri strumenti. L’assenza di numerose costrizioni interne tipiche delle democrazie occidentali permette a Mosca un utilizzo più agevole di tutte le altre armi a propria disposizione, compreso l’uso razionale della forza militare o la sua minaccia. Le difficoltà che gli USA e l’Europa incontrano nell’azione politica nei confronti della Russia di Putin (ma anche nei confronti della Cina) potrebbe, infatti, essere spiegabile anche in questi termini.

Ciò che il Cremlino ha imparato dalla crisi ucraina è che gli strumenti che ha a disposizione sono ancora validi in un contesto internazionale multipolare. Al di là dell’evoluzione della situazione in Ucraina è evidente che i rapporti di forza tra Bruxelles, Washington e Mosca dovranno essere riconsiderati, specialmente con riferimento alle questioni che coinvolgono i confini della Federazione Russa, in quel quadrante che a Mosca chiamano Near Abroad. Si spiegano così le dichiarazioni di Putin circa il fatto che gli interessi russi in Ucraina sono stati ignorati dall’Occidente. Il sostegno alle proteste di piazza alla fine di novembre, le critiche nei confronti di Yanukovich e l’appoggio al nuovo governo di Kiev, nonostante i tentativi di mediazione anche prima della fuga dell’ex Presidente, sono stati letti dal Cremlino come un’ingerenza nei propri interessi strategici.

Un’altra lezione che può essere tratta dalla crisi e dalle elezioni in Ucraina riguarda strettamente Bruxelles. Gli ultimi mesi hanno sottolineato come la Politica Europea di Vicinato (European Neighbourhood Policy) e più precisamente il Partenariato Europeo (Eastern Partnership) non possano prescindere dalla partecipazione della Federazione Russa. Mosca e i suoi interessi non possono più essere esclusi dalla politica europea nei confronti dei propri vicini orientali.

L’equilibrio strategico regionale – L’Ucraina è difatti un Paese che ricopre una grande importanza per la Federazione Russa sia da un punto di vista strategico, sia da quello politico-economico. In primo luogo Kiev è un attore essenziale per la realizzazione dell’ambizioso progetto dell’Unione Euroasiatica. Senza l’Ucraina l’Unione Doganale perde un attore fondamentale soprattutto nei rapporti di quest’ultima con il vicino europeo.

Ma il fattore che più preoccupa il Cremlino è l’equilibrio regionale. Mosca ha sempre guardato con diffidenza l’allargamento della NATO verso i propri confini e, se non ha potuto evitare l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria prima e dei tre Paesi baltici poi, considera la neutralità dell’Ucraina come la condizione minima per la propria sicurezza strategica. Proprio per questo ogni forma di avvicinamento di Kiev verso le istituzioni occidentali senza un aperto e concreto dialogo con Mosca appare inaccettabile per l’establishment politico-militare russo. Il cambio di regime di febbraio, e l’accordo del 21 febbraio che imponeva la formazione di un governo di unità nazionale, è stato percepito dal Cremlino, a torto o a ragione, come una diretta minaccia per i propri interessi strategici. Non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo per comprendere a cosa sia disposta la Russia di Putin se sente minacciati i propri interessi vitali nella regione immediatamente adiacente ai propri confini (la breve guerra russo-georgiana dell’agosto 2008). Appoggiare apertamente un cambio di regime a Kiev o promuovere un allargamento della NATO verso Tbilisi, sono mosse che in nessun caso possono lasciare indifferente il Cremlino.

Cosa rimane dell’Ucraina – L’Ucraina dopo le elezioni si presenta come un paese in preda alle pulsioni più disparate. Un Paese estremamente diviso e polarizzato, incapace di fare i conti con il proprio passato e di guardare avanti con quella speranza nel futuro che ha caratterizzato i primissimi giorni di EuroMaidan. Il paradosso sta proprio qui: con le elezioni di domenica la piazza ha perso definitivamente. L’elezione di un altro oligarca, la permanenza al potere della stessa classe politica, la definitiva e apparentemente irrimediabile spaccatura del Paese, è tutto quello che rimane di Piazza Indipendenza.

Le elezioni non risolvono, inoltre, il principale problema politico, quello della governabilità. Poroshenko dovrà assicurarsi l’appoggio del Parlamento che, con la reintroduzione della Costituzione del 2004 è diventato di nuovo il principale organo di governo. La sua composizione però non permette molto ottimismo. Il Partito delle Regioni, che nelle ultime consultazioni (ottobre 2012) si era aggiudicato la maggioranza, non esiste praticamente più, mentre Patria, il partito di Yulia Timoshenko, esprime l’attuale Primo Ministro oltre che numerosi Ministri. Poroshenko, che può contare sull’appoggio dei 42 deputati di Udar, come Presidente avrebbe teoricamente il potere di sciogliere la Verhovna Rada e di indire nuove elezioni, ma sembra comprendere perfettamente che questa mossa gli costerebbe un ingente capitale politico. D’altra parte, anche se il nuovo Presidente decidesse di agire in questo senso, i tempi sembrano piuttosto lunghi e la situazione di crisi interna difficilmente potrebbe permettere nuove elezioni nazionali senza che la questione dell’unità nazionale sia politicamente indirizzata verso il dialogo. Lugansk e Donetsk, intanto, non restano a guardare e dopo il referendum le due Repubbliche Popolari si sono affrettate a dichiarare la creazione di un’unione, denominata Novorossiya (nuova Russia), mentre un giorno prima delle elezioni alcune regioni sud-orientali dell’Ucraina (Odessa, Nikolaev, Dnepropetrovsk, Zaporozhye, Kharkov, Kherson, Donetsk e Lugansk) hanno annunciato la creazione di un non meglio precisato “Fronte Popolare”.

Infine vi è la crisi economica. I mesi d’instabilità e il ritiro da parte di Mosca degli aiuti promessi a Yanukovich hanno contribuito a spingere il Paese, già in piena emergenza, sull’orlo della bancarotta. Gli aiuti offerti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale sono pochi e accompagnati da clausole che il governo ucraino non è in grado di rispettare. Le bollette del gas continuano a crescere. Le promesse elettorali di Poroshenko, che ha assicurato che gli effetti della crisi saranno assorbiti soprattutto dalla classe più agiata, sembrano poco credibili persino alle persone che hanno votato per lui.

Nonostante le rassicurazioni delle cancellerie occidentali, la crisi ucraina non si esaurisce con la nomina del nuovo Presidente. Lo spettro della guerra civile è ancora più che mai dietro l’angolo e le sorti del Paese non si decidono più solo a Kiev. Donetsk e Lugansk assomigliano sempre più allo scenario transnistriano, mentre Mosca, che ha decisamente ammorbidito la propria posizione in vista delle elezioni, aspetta di giocare la sua prossima carta. Il tutto mentre l’Ucraina rimane nel caos e nelle regioni orientali, già qualche ora dopo le elezioni, si ricomincia a sparare.

* Oleksiy Bondarenko è Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università degli Studi di Bologna (sede di Forlì)

[1] Il Donbass è una regione geografica che prende il suo nome dal fiume Donec, uno degli affluenti del Don. La regione, caratterizzata da numerosi giacimenti di carbone, comprende la parte orientale dell’Ucraina (oblast di Donetsk e Lugansk) e la parte di confine dell’oblast di Rostov in Russia.

Photo credits: BBC

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