di Stefania Mattana
Che Pieter De Villiers fosse un uomo dalle strabilianti doti poliedriche lo si era compreso da tempo: allenatore degli Springboks, esperto di gossip, eterno polemico nei confronti del gioco All Blacks, fautore della crociata anti off-load e ora anche esperto antropologo. Ebbene sì, chi avrebbe mai pensato che un coach di rugby ne capisse anche di discipline etnologiche? Sono di oggi infatti le parole di De Villiers che espongono una sua interessante (!) teoria: la haka neozelandese sta perdendo il suo significato culturale perché viene eccessivamente riprodotta.
“Per me ci sono troppe haka in giro – ha dichiarato – La haka sta perdendo la sua intensità, la gente sta iniziando ad abituarcisi. Non è più una novità e la gente non la rispetta più”-
Il coach del Sudafrica si riferisce nel dettaglio alle attività ed eventi di contorno legate alla Coppa del Mondo, che logicamente abbracciano gli aspetti della cultura Maori più significativi e noti al grande pubblico. Durante il mondiale, infatti, in tutta la Nuova Zelanda si può assistere a un gran numero di haka, organizzate in maniera diversa e dal differente significato etnologico: dalle danze di benvenuto rigorosamente performate da Maori ai flash mob per strada e nei centri commerciali, fino a giungere alla celebre “Ka Mate” degli All Blacks poco prima dell’inizio dei loro match.
Tutto un danzare complusivo, secondo De Villiers, che minerebbe il significato della haka stessa, facendone perdere l’essenza intrinseca e l’interesse del pubblico nei suoi confronti. “Non si può attraversare la strada senza che qualcuno faccia una haka. Alla fine questo non può che portare ad annoiare chi le guarda”, è stata la sua conclusione finale.
La risposta neozelandese non si è fatta di certo attendere. Malcom Mulholland, ex rugbista Maori, ha dichiarato che non c’è modo più meraviglioso della Haka per illustrare al mondo la cultura indigena kiwi. “Le Haka sono organizzate da Maori e mostrano la nostra cultura. Spesso si fondono con la cultura moderna, e cerchiamo di adattarle ad essa; è un modo per far apprezzare alla gente un pezzo della nostra identità”, sono state le parole di Mulholland. C’è da dire che alcuni tentativi di fondere la modernità con la sacralità della danza Maori per eccellenza hanno lasciato a desiderare: la haka a volte è stata anche strumentalizzata dalla pubblicità, rischiando di farla cadere nel baratro del ridicolo.
Tuttavia, il concetto di De Villiers rimane per me un mistero: la simbologia di un’azione non può perdere la sua forza intrinseca solo per via della sua reiterazione nel tempo, specialmente se il suo “peso” etnologico è spesso e volentieri ben equilibrato rispetto al contesto sociale in cui essa di verifica. A maggior ragione se questa danza diventa un’icona e una forma quasi idealitipica di un’identità che vuole esprimere la sua imprescindibile presenza nell’economia di un evento così importante come la Coppa del Mondo di rugby.
In parole povere, coach De Villiers dovrà studiare un po’ di più se vuole una laurea Honoris Causa in antropologia. O magari mi scrivesse una email, prima di dire certe cose.






