Gli esseri mitologici per loro stessa natura possono diventare anticamera di noi stessi. Personificazione di ogni uomo e ogni tempo. Così questo Ulisse esce fuori dalla nicchia immobile di una storia secolare e viene a vivere la vita come figlio, amante, viaggiatore e sposo.
Riluttante ed entusiasta. Ammaliato o controverso. Come la stessa natura della Terra da cui si muove.
Quella Grecia, che a guardarla bene “non è un Paese ma un’idea che attraversa il mondo da secoli”.
Cosi noi, in quell’attraversare il mondo, dopo l’iniziale equivoco del viaggio verso una meta, riusciamo a ricondurci al vero scopo del movimento: assolutamente inverso e necessario.
“Il viaggio è la prima cosa che dio ha creato. Poi il dubbio. Quindi la nostalgia”.
Così nasce la necessità del ritorno. Quasi “l’ossessione per il punto di partenza”. E li aggrapparsi per affrontare la più profonda delle consapevolezze: noi stessi.
Ulisse, pretesto onirico e immagine di superuomo pellegrino, ci prende per mano e ci riporta a casa. Qualunque sia il domicilio.
Lo spazio immutato di una sala con qualche tavolo, perde consistenza ma acquista necessità, nutrendo il nostro bisogno di ritorno.
Siamo imbarcati, siamo sobbalzati in treno, siamo bloccati su un autobus. Siamo semplicemente fermi al confine, in attesa di un “passaggio”.
Si sente la mancanza di tutti in questo ritorno. Di Strehler e di Fellini, di Artaud e Kavafis, Hikmet ed Angelopoulos.
Si sente la mancanza di “noi” e di “io”.
Per quelle idee che ci hanno digerito e fatto uomini, e adesso ci schiacciano mute e inconsistenti dentro il labirinto del niente contemporaneo.
Il vero viaggio è il ritorno. E il vero dio, è la Bellezza. Eccesso di sentimentalismo? Forse.
Ma in fondo, è solo teatro (?).