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ULTIMO VIENE IL CORVO | Un ritratto di Frederick Rolfe

Creato il 11 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

baron_corvo_frederick_rolfe_marco_cavalli (8)di Marco Cavalli

 

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Nato nel 1860 da una famiglia protestante, Frederick William Rolfe è noto per essere l’autore di due ragguardevoli romanzi, Adriano VII e Il Desiderio e la Ricerca del Tutto, firmati con lo pseudonimo di Baron Corvo. Le enciclopedie e i manuali di letteratura nei quali si fa menzione di lui ne parlano su uno stesso registro, come scambiandosi le informazioni: scrittore della stirpe dei Pater e dei Wilde, abitudini di vita strampalate, omosessuale. Anche Mario Praz, per solito giudizioso nel redigere i suoi medaglioni di scrittori inglesi minori ma meritevoli di attenzioni critiche, si accontenta di confermare la leggenda di un Rolfe esteta decadente e pazzerello. Se non che la lettura della bella biografia che A.J. Symons ha dedicato a Rolfe (Alla ricerca del Baron Corvo, tr. di Giorgio Agamben, Longanesi 1966) mostra che non c’è traccia di decadentismo letterario o esistenziale nella vicenda, perlopiù infelice, di questo ecclesiastico mancato, il quale per cinque anni, dal 1908 al 1913, soggiornò a Venezia campando di espedienti, e qui morì di stenti in uno stanzino sito nell’ex palazzo Marcello, a ridosso dell’attuale palazzo Vendramin.

L’episodio cardine della vita di Rolfe è la conversione al cattolicesimo avvenuta a ventisei anni. Da quel momento Rolfe incorre in una successione impressionante di disavventure, una più dickensiana dell’altra, con ripercussioni rovinose sul carattere e sul tenore della vita materiale. Prima di allora, il futuro Baron Corvo era stato studente esterno a Oxford e in seguito aveva lavorato come maestro di scuola. Andando contro il parere dei familiari, si converte ed entra nel prestigioso collegio cattolico di Oscott, in Scozia, da dove viene espulso, nel 1890, per condotta stravagante e sregolata, secondo le scarne testimonianze degli ex-allievi interpellati da Symons, in realtà per qualcos’altro di più annoso che Rolfe si guarderà bene dal menzionare mai. Con il candore che impronta tutta la sua contegnosa esposizione, Symons mette il dito nella piaga: «Rolfe… aveva cercato di diventare sacerdote. Quest’ultimo fatto era certo più insolito; ma non era poi così sorprendente se si considera che un uomo in cui la natura non ha posto l’amore per la donna è più incline degli altri ad abbracciare una carriera che imponga il celibato».

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Tra il 1890 e il 1900, Rolfe è preso dalla preoccupazione di mettere insieme pranzo e cena. Fa del giornalismo, lavora come pittore affrescando alcune chiese di Christchurch e si diletta di fotografia. I debiti contratti con i commercianti del luogo, e in più l’aggravante di fregiarsi di un titolo nobiliare, Baron Corvo, di sua invenzione, gli alienano contatti e simpatie. Rifugiatosi a Londra, Rolfe stipula un contratto con l’editore Grant Richards per scrivere in tempo di record una storia veritiera del casato dei Borgia. Dopo mesi di ricerche e di contenziosi con l’editore, tra cui c’è spazio per un primo viaggio in Italia, escono nel 1900 le Cronache dei Borgia, connubio astruso di erudizione e di abbandono all’improvvisazione sensoriale. In questo libro incauto e disuguale è già maturo lo stile delle opere maggiori di Baron Corvo, uno stile accostabile alla sua tecnica pittorica, che consisteva nel fotografare i modelli, ricavarne delle diapositive e proiettarle sulla superficie da dipingere con la lanterna magica, seguendone i contorni con il pennello. Ma le Cronache dei Borgia risultano soprattutto il serbatoio di alcune ossessioni tipiche dell’imminente produzione romanzesca di Corvo: il confronto polemico fra il XV e il XX secolo, a scapito di quest’ultimo; il mito dell’integralismo arrogante di santa romana Chiesa contrapposto al pulviscolo delle eresie luterane; l’apologia di papa Alessandro VI Borgia, “uomo grandissimo, colpevole di non celare nessuna delle sue umane debolezze, e quindi terrore degli ipocriti di tutte le età successive”; la mania di riabilitare reputazioni indifendibili di personalità e dinastie compromesse dalla storiografia accademica e mandarinesca.

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Mixando fonti storiche e referenze letterarie, Rolfe perfeziona una metodologia che gli sarà sempre più consona, quella di confessare parecchie cose di sé senza ammetterne in modo esplicito neanche una. Le pagine polemiche sulla vocazione dei cattolici alla calunnia sono ispirate a esperienze personali più di quanto non dica il loro riferirsi a un preciso contesto storico: “I cattolici romani (…) sono fin dalla concezione imbevuti e saturati dall’idea della laidezza del peccato, non della sua stupidità e inutilità. È il loro babau, il loro frutto proibito, il terreno rigorosamente cintato e marcato con la dicitura “I trasgressori saranno puniti con il massimo rigore di legge”. (…) Questa intima cognizione della laidezza del peccato, questo sistematico catalogarne le specie e le sottospecie, percorrendone tutte le varie ramificazioni, ispira un ribrezzo quanto mai intenso. Ha anche un altro effetto: di indurre a una esagerata consapevolezza della virtù. Questa condizione di “untuosa rettitudine”, ispirata in tutto e per tutto dall’orrore del peccato, è occasione prossima del peccato di calunnia.” Indubbia è la familiarità di Rolfe con gli effetti devastanti della calunnia benpensante. Il suo esilio forzoso a Londra, dove conosce i disagi della disoccupazione e della miseria, si deve a un articolo diffamatorio sul suo conto apparso nel giornale di Aberdeen. Rolfe è pratico di calunnie anche per una ragione che esorbita dall’abitudine dei suoi contemporanei a diffamarlo. La sua unica arma di difesa contro la pubblica riprovazione è infatti una calunnia di cui nessuno a parte lui è a conoscenza.

Dall’istante in cui ne viene espulso, Rolfe sa di aver voluto entrare nella Chiesa per tenere nascosta ai suoi stessi occhi la propria omosessualità. Puritano qual è in fondo, Rolfe non si perdona di aver mentito a se stesso. A farlo infuriare, provocando quell’ostilità disseminata e diretta contro amici, committenti e destinatari del suo lavoro che finirà col renderlo famigerato, è la consapevolezza eccessiva di questo errore, che lo rende indulgente verso individui uguali a lui e che però hanno accesso alle cariche che a lui sono state negate. Tutta la polemica di Rolfe con la società del suo tempo, che nei suoi libri assume puntualmente la forma di una controversia fra un cattolico dissidente e la comunità ecclesiastica restia ad accoglierlo, va considerata uno sviluppo secondario dell’atteggiamento ambivalente di Rolfe nei confronti della propria omosessualità. Rolfe non perdona alla Chiesa cattolica di avergli aperto gli occhi sul reale motivo del suo desiderio di entrarvi a far parte. Se c’era un perché all’origine della decisione di convertirsi al cattolicesimo, esso doveva assottigliarsi fino a scomparire all’atto di prendere i voti. Come uomo, Rolfe continuerà a sentirsi attratto dal cattolicesimo, e questo perché, come scrittore, egli sa di essere in debito con il cattolicesimo. Al cattolicesimo, egli deve un contributo di conoscenza su se stesso che non riuscirà mai a rinnegare, pur volendolo con tutte le sue forze. Di questo scisma interiore fanno le spese le non molte persone che tentano di togliere Rolfe da una cronica situazione di dissesto pecuniario. Afflitto non da qualche persecuzione poliziesca o di costume, ma dall’espandersi di un vasto senso di colpa abbinato a un altrettanto invadente amor proprio, Rolfe vede nemici ovunque, di preferenza fra gli amici, o perché costoro non gli vengono in aiuto o perché, soccorrendolo, hanno il torto di ricordargli lo stato pietoso in cui si trova.

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Mentre precipita nei debiti, Rolfe invia a destra e a manca biglietti strazianti alla Büchner invocando sterline. Ma quando l’assegno arriva, magari con un certo ritardo a causa di disguidi postali, lo respinge sdegnoso al mittente. In breve, si crea una fama di ingrato e di ingestibile quale nessun altro scrittore inglese potrà vantare dopo di lui. Su questa falsariga si muove George Arthur Rose, protagonista di Adriano VII, il romanzo capolavoro di Rolfe, edito nel 1904. La stravaganza di Rose, le sue pose da dandy, sono un’armatura che lo protegge da chiunque voglia umiliarlo facendogli la carità. Cresciuto come il suo autore nell’assillo dell’insicurezza economica, Rose non può accettare alcuna forma disinteressata di relazione con il prossimo che si basi su una disuguaglianza sociale. Preferisce fare la fortuna dei suoi detrattori e parassiti, se questo sacrificio può allontanare il rischio di ferirli facendo sentir loro la meschinità e l’aridità di cui sono aureolati. Una volta fatta la conoscenza di un personaggio così tormentato, si prova una stretta al cuore leggendo, nella biografia di Symons, le accuse di ingratitudine e di paranoia che gli antichi benefattori di Corvo rinfacciano al loro ex-protetto. Quelle contestazioni, modeste come i fatti ai quali si rifanno, assumono una gravità imprevista a causa della consegna del silenzio che Rolfe si è imposto sugli episodi che determinarono la sua cacciata dal collegio di Oscott. Per Rolfe la verità è un imperativo, e in questo senso egli non lascia niente di intentato per confutare i suoi accusatori. Quando mendica prestiti da datori di lavoro e conoscenti, è spesso per poter dimostrare, saldando i debiti, di essere meno indegno di considerazione di quanto non dicano le occulte ragioni che lo costringono a contrarre quei debiti. Ma in quanto si basano su una verità omessa, le sue apologie prendono un aspetto stralunato e passano in modo brusco dall’irrisione dei capi d’accusa ai toni concitati e grottescamente solenni dell’arringa di difesa.

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Incapace di essere onesto fino in fondo o di diventare un bugiardo tutto d’un pezzo, Rolfe consuma buona parte della sua breve carriera di scrittore ad affilare le sue piccole armi di gay velato, nel tentativo di comporre in un equilibrio diverso, meno doloroso, il dissidio fra una verità impronunciabile e le calunnie con facoltà di parola. D’altra parte, senza questa idiosincrasia Baron Corvo non sarebbe approdato alla letteratura. Dove la sua maestria di scrittore tocca il vertice è nell’arte dell’autodifesa epistolare. I suoi romanzi possono definirsi un’appendice intimista della narrativa giuridica di Trollope e Meredith. Sotto l’esibizione di retti principi morali cui li obbligano l’ambiente e la necessità del pane, i personaggi di Rolfe tradiscono il machiavellismo disperato dell’individuo indifeso, costretto a farsi strada fra gente più forte e spietata di lui. Esposti al pericolo dell’umiliazione perpetua, Nicholas Crabbe, l’eroe del romanzo Il Desiderio e la Ricerca del Tutto, e George Arthur Rose, reagiscono elaborando un programma originalissimo: difendersi dominando. Adriano VII va particolarmente citato perché Rolfe, tramite il suo personaggio, vi attua l’integrazione in seno alla Chiesa che lo aveva respinto bollando come inadeguata la sua vocazione. Nel romanzo, la Chiesa cattolica chiede ipocritamente al protagonista di essere perdonata per il male che gli ha fatto, e Rose la prende alla lettera: la perdona, ma non prima di esserne diventato il pontefice. Per sfuggire alla soluzione obbligata della ritorsione e del risentimento, reazione che avallerebbe l’azione contro di lui, Rose sceglie di perdonare i suoi persecutori dal gradino più alto della gerarchia cui essi appartengono. Se per diventare sacerdote ha dovuto rinunciare a essere quello che è, ora Rose non può accettare di essere nuovamente se stesso se non alla pari con l’autorità responsabile di quella suprema rinuncia. Questa non è che una delle grandiose inversioni inscenate nel romanzo: fare voto di obbedienza alla Chiesa insediandosi a capo di essa; fare voto di povertà uscendone a titolo definitivo. Il culmine è al capitolo XII, quando Adriano VII ottiene che il collegio cardinalizio discuta i casi sfortunati di George Arthur Rose. L’uomo inventatosi pontefice per sfuggire all’anonimato e alla miseria dell’emarginazione, può finalmente svestirsi e parlare di sé in prima persona di fronte ai suoi persecutori. Dopo di che, Corvo fa assassinare Rose chiudendo il romanzo su una nota artificiosa e volutamente melodrammatica.
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Le carte che Symons riferisce di aver scorso e che, relative al soggiorno veneziano di Rolfe, farebbero di lui una figura di “losco accaparratore di minorenni” (Mario Praz), vanno lette sotto una luce non ignara della singolare psicologia del personaggio. A parte le reticenze di Symons su questo punto, scusabili se si guarda alla data di pubblicazione della biografia (1934), bisogna considerare che Rolfe durante tutta la vita aveva subito il genere di ostracismo sociale continuato ed aggressivo che il suo rigorismo morale avrebbe avallato solo se egli si fosse riconosciuto colpevole di aver assecondato le proprie inclinazioni. Rolfe invece può dire di esser stato gettato sul lastrico in ragione della sua incapacità di far fronte ai debiti. Tuttavia, egli non accetta una condanna simile, che giudica iniqua e sproporzionata, ma nemmeno la può smentire, perché questo significherebbe riesumare la faccenda del sacerdozio mancato, e quindi l’omosessualità. Sicché non pare incredibile che, negli ultimi anni della sua vita, esaurite le speranze e le risorse, Rolfe abbia meditato di fabbricarsi ad arte una nomea che stornasse le dicerie sul suo conto, ingiuste nella misura in cui insistevano a qualificarlo debitore insolvente, indirizzandole verso il solo reato che ai suoi occhi poteva giustificare un’emarginazione così estrema e diffusa.

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A un uomo che per vergogna non aveva vissuto l’omosessualità, vivere nella stessa identica vergogna di chi è arrivato a fare un uso criminale dell’omosessualità doveva sembrare un risarcimento emotivo ben strano, e beffardo. Stanco di giustificarsi per infrazioni che reputa veniali a paragone di quella unica e segreta che egli non si permette neppure di nominare, Rolfe si mette a scandalizzare secondo il costume degli esteti e dei letterati in odore di maledettismo. Il ricorso alla mistificazione diventa in lui talmente naturale da trasfigurarsi in una passione teatrale parossistica. È perfino probabile che, avendo subito il boicottaggio sociale fino al punto in cui questo penetra con successo nell’opera letteraria, Rolfe non si rassegnasse più facilmente a farne a meno. Avvezzo a scontrarsi ovunque con la propria impopolarità, negli ultimi anni non fece che alimentarla, forse anche per tenere in esercizio quell’estro per l’autodifesa in pubblico che fa tutta la bellezza de Il Desiderio e la Ricerca del Tutto, l’ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1934.

Marco Cavalli

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