Nasce um Deus. Outros morrem. A verdade
Nem veio nem se foi: o Erro mudou.
Temos agora uma outra Eternidade,
E era sempre melhor o que passou.
Cega, a Ciência a inútil gleba lavra.
Louca, a Fé vive o sonho do seu culto.
Um novo Deus é só uma palavra.
Não procures nem creias: tudo é oculto
Fernando Pessoa, “Natal”
Sono loro a dire, anche in una canzone, wolves evolve. Quel che è certo è che cambiano spesso pelle, sono uno dei gruppi coi quali sono cresciuto (hanno la mia età), li amo e ogni tanto mi incazzo con loro.
Gli Ulver, norvegesi, iniziarono vent’anni fa col black metal e poi – dopo un radicale cambio di formazione – divennero un duo elettronico con l’ep Metamorphosis, successore di un disco troppo ambizioso e di transizione come quello che metteva in musica per intero “Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno” di William Blake.
Se Nattens Madrigal – forse – fu l’apice del loro periodo black, tanto che ancora oggi fa da pietra di paragone in compagnia di In The Nightside Eclipse e A Blaze In The Northern Sky, la fase successiva cominciò a essere splendida anzitutto grazie a Perdition City, col quale Garm e Tore tentarono un mix di Coil (Pitchfork, massacrandoli, parlò di “Coil rip-off”), Autechre e di un trip hop jazzoso un po’ à la Portishead. Gli Ulver non appartenevano a nessuna delle scene/culture di provenienza di questi tre nomi, ma arrivavano da uno strano altrove, il che rese – e rende – l’album speciale in qualche modo non ben spiegabile. Per altro tutto ciò fece sì a lungo che la stampa metal (l’unica stampa che li segue sempre, però, e credo dia loro parecchio su cui riflettere) non li capisse proprio bene, ma non permise loro di essere considerati da quella “alternativa”.
Truth is a hospital
Ulver “Operator”
Altro pezzo da novanta fu Blood Inside, il disco del ritorno alla voce (in Perdition City Garm taceva quasi fino all’ultimo. Provocatoriamente, in quanto cantante richiestissimo) e della grandeur tragica e folle allo stesso tempo: un guazzabuglio mezzo prog di influenze inafferrabili, genitore di alcuni dei loro brani più belli: “Christmas”, che ruba i versi di Pessoa, “It Is Not Sound”, divertentissima, e “Operator”, disperata. Tra Perdition e Blood, nel frattempo, era entrato nel gruppo Jørn Henrik Sværen, che si occupava della resa dei testi e delle traduzioni norvegese-inglese già all’epoca di Nattens Madrigal (non s’è mai saputo bene cosa faccia di musicale, ma tanto mica le interviste servono per approfondire…).
Negli anni, come logico, non sono mancati ep, dischi di remix, colonne sonore, mentre in tempi più recenti abbiamo ascoltato un intimista e piuttosto accessibile Shadows Of The Sun, poi l’errore mezzo prog (la metà sbagliata, stavolta) di Wars Of The Roses, album con Daniel O’Sullivan (Guapo) parte a tutti gli effetti degli Ulver, ma decisamente corpo estraneo e dannoso. Tra l’altro era diventato loro amico più stretto ai tempi della collaborazione altrettanto impalpabile di Garm al secondo disco degli Æthenor, segno che proprio tutto era nato sotto una cattiva stella. Si arriva all’oggi con le cover di Childhood’s End e un Live At Roadburn, senza dimenticare infine un recente grido d’aiuto su web, perché il gruppo non ha mai davvero trovato una certa tranquillità economica.
The Massacre of the Innocents
And the Sacrifice of the Son
What Kind of Choir
Of Angels will Receive us
Ulver, “Son Of Man”
Messe nasce da un progetto finanziato con soldi pubblici, che coinvolge gli Ulver e la Tromsø Chamber Orchestra. Live hanno suonato insieme ormai un anno fa. In studio, successivamente, sono state fatte una serie di aggiunte alla registrazione di quella serata. Daniel O’Sullivan è sparito, in compenso c’è Ole Alexander Halstensgård, uno dei due Paperboys, act hip hop norvegese passato per la Jester Records di Garm (il suo tocco si sente nei frangenti portisheadiani di “Noche Oscura Del Alma”, notevolissima). Gli Ulver sembrano tornare loro stessi, giocano in casa con gente che conoscono e guardano al mesto Shadows Of The Sun (forse occorrerebbe anche risentire l’ep A Quick Fix Of Melancholy), oltre che alle colonne sonore. Ci dicono della loro passione per Górecki e per Mahler, la cui tristezza autunnale è presente davvero (lo confermano le mie “fonti” per la musica classica). Collabora il compositore Martin Romberg, che – guarda caso – ha lavorato per il cinema.
Si comincia con gli archi prima gravi (drone-doom?) e poi struggenti di “As Syrians Pour In, Lebanon Grapples With Ghosts Of A Bloody Past”, dopo tocca a “Shri Schneider”, dentro la quale s’insinuano influenze kraut/kosmische, e “Glamour Box (Ostinati)”, a momenti in competizione con Elfman e Zimmer. Di “Noche Oscura Del Alma” s’è già detto, dunque restano le due preghiere di Garm, silenzioso (ma il silenzio t’insegna come cantare) per tutto il resto dell’album. La prima è rivolta al Padre, al quale il cantante chiede perdono, per poi – in un crescendo d’archi devastante – domandarsi in modo un po’ ermetico chi e come ci aspetta in Cielo, citando prima episodi cruenti e fondanti per il Cristianesimo. La seconda, un po’ troppo easy listening, è quella a una Madre inevitabilmente misericordiosa, e si finisce ai piedi della Croce (come Huysmans). Casomai non se lo ricordasse nessuno, questo è lo stesso Kristoffer Garm Rygg che negli Arcturus – più o meno nel 1996 – faceva la parte di Lucifero (il testo, già quella volta, era di Jørn Henrik Sværen).
Gli Ulver sono sempre stati grandi direttori d’orchestra, nel senso che hanno sempre saputo – con gusto quasi postmoderno – fare collage di influenze, stile e musicisti, senza quasi mai dimenticare di far sentire forte e chiara la loro personalità. Con in mano questo budget, questa squadra e la solita voce perfetta, non potevano che far bene. Quanto bene lo stabilirò tra altri vent’anni.
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