«La parola a legioni di imbecilli.» È questa una delle citazioni di Umberto Eco che è stata più ripresa dalla stampa all’indomani dalla sua scomparsa lo scorso 19 febbraio. È il 2015 e nel ricevere una delle tante onorificenze della sua vita, Umberto Eco si rivolge ai giornalisti assiepati nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino e dice: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.»
Una vespa in una nursery. Il terrore si propaga bloccando ogni movimento. Eco prosegue: «la tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità» Sguardi vitrei dei giornalisti presenti che vedono il pericolo avvicinarsi. La vespa ce l’ha proprio con loro. Eco prende bene le misure del significato delle sue parole, per un esperto di semiotica è un riflesso automatico, e conclude: «i giornali dovrebbero filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di Internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». Gli animi si accalorano. Lavoro, approfondimento, verifica. Non dovrebbe essere una novità del mestiere del giornalista il controllo delle fonti, semmai è la massa di fonti che è talmente vasta da rendere il compito arduo. Arduo, non impossibile. Anche perché è lo stesso Eco a fornire la chiave di lettura di Internet: la conoscenza. La conoscenza è l’unico filtro possibile per distinguere vero da falso, premio Nobel da tuttologo improvvisato, conoscenza che nasce dallo studio prolungato e approfondito di un tema e non può partire dalla Rete ma alla Rete arriva per verificare, confrontare e ampliare se stessa, senza perdere il suo fulcro. E mentre molti giornalisti scappano dalla vespa per poi sostenerla, criticarla, citarla e sorpassarla con la velocità che la Rete sembra imporre, in pochi hanno pensato al pericolo più grande che la ‘vespa Eco’ ha riposto nelle sue parole: l’inaffidabilità dell’intero sistema.
Se non posso sapere se l’informazione cui attingo è affidabile, come posso considerare affidabile l’intero sistema e di più, se nessuno punterà all’approfondimento e alla verifica delle notizie, inutile perdita di tempo per un pubblico di lettori che ama le cose semplici, ci sarà qualcuno fra cinquant’anni che si accorgerà della differenza, mentre sguazza in una piatta semplificazione di quella che un tempo chiamavano conoscenza?
Speriamo di sì. È sempre Umberto Eco a sostenere in una famosa intervista con il Guardian: «sono solo gli editori e alcuni giornalisti a credere che le persone vogliano cose semplici. Le persone sono stanche di cose semplici. Vogliono essere sfidate.» Va detto che molti dei suoi lettori lo hanno ampiamente dimostrato. Se andiamo a osservare le vendite dei libri di Umberto Eco (parliamo qui della narrativa) troviamo saldamente al primo posto con milioni di copie vendute in decine di Paesi il suo Il nome della rosa (1980) un libro complesso, erudito, zeppo di citazioni latine e letterarie, dalla trama “appesantita” da riflessioni filosofiche sull’etica, la ricerca del divino, il confine fra bene e male. Un libro che lo stesso Eco ha definito più volte «troppo complicato» nella struttura e nel linguaggio. Eppure quando Eco ha pubblicato, più di vent’anni dopo, un romanzo come La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), scritto con un linguaggio molto più semplice e con una struttura narrativa apparentemente più fruibile de Il nome della rosa non è stato seguito dai suoi lettori che per questo Eco definisce «masochisti», desiderosi di quella sfida che i romanzi di Eco, rompicapi multilivello degni di un appassionato di rebus quale era il loro creatore, assicuravano.