Un'altra giovinezza
di Francis Ford Coppola.
con Tim Roth, A.M.Lara, Bruno Ganz, A.Pirici, A.M.Hennicke.
USA, G, Rom, Fra, Ita 2007 -
durata, 125'
"I realized when I saw you last/We've been together now and then/From time to time - just here and there -".
- Soft Machine -
"Dimmi,
dove vuoi che lasci la terza rosa ?". Se e' vero che s'impiega gran
parte della propria vita a diventare sul serio giovani, F.F.Coppola ha
indirizzato il suo sguardo e i suoi sforzi meglio di quanto abbia fatto,
per esempio, J.Ponce de Leon, riguadagnando una freschezza cinematografica che a pochi, in generale, e' dato di assaporare.
L'allontanamento progressivo (sebbene in buona parte coatto e già riscontrabile nel respiro asincrono di
un' opera interstiziale come "Jack", 1996) dalla tenaglia produttiva
hollywoodiana; la saturazione - anche dal punto di vista spettacolare -
e conseguente stanchezza di un approccio fieramente antagonista,
quanto, al tempo, parimenti magniloquente nelle forme, a contenuti universali ( i legami familiari; quelli camerateschi; l'incedere del tempo; il persistere della violenza; le gioie affettive quasi sempre trattenute;
l'amore timido o impaziente, comunque già volto al rimpianto; l'Arte
come punto di fuga dalla mediocrità e accesso al Sogno ma esigente banco
di prova ed esattrice impietosa di dazi in genere molto alti; il passo
attutito ma ininterrotto e greve della Morte, et.); la consapevolezza di
appartenere ad un mondo (e ad un Cinema) inesorabilmente passato (quante volte ci sorprenderemo ancora a fantasticare riguardo i progetti immensi di
un cineasta inquieto - pensiamo solo a "Megalopolis" - che mai
incontreranno pari ingenuità e volontà di potenza utili a realizzarli ?)
che poco ha a che fare con quello - il nostro - dal quale, per dire,
sembra che persino l'oblio sia stato sconfitto, saturo com'è anch'esso
d'immagini - proliferanti, invadenti - tese a sostituire alla Storia la
sua sempre più frammentata e indecifrabile rappresentazione, hanno,
paradossalmente, fornito al regista italo-americano le coordinate ideali
(un inedito punto di vista, verrebbe da dire, più privato,
malinconico, incline alla riflessione e al dubbio, come anche più aperto
alla ricognizione emotiva, alle stranezze cangianti dei sentimenti),
gli strumenti materiali (i bassi budget, le piccole e agili troupe, le
ambientazioni inconsuete o remote) e quelli espressivi (in specie
reminiscenze di vecchie predilezioni: atmosfere gotiche ad un passo
dall'horror; incastri melo'; momenti goffi o surreali per toni da
commedia circa complicate educazioni alla vita), per cogliere,
nell'odierna dispersione, le tracce necessarie a disegnare un percorso
affine a qualcosa come un'altra giovinezza.
Proprio
"Un'altra giovinezza" - il titolo italiano cela sotto la veste
possibilista un'antinomia seducente e feconda, sebbene tragica negli
esiti addirittura eccedenti lo smacco, essendo l'originale "Youth
without youth" - racchiude in se' buona parte delle intenzioni e dei
segni stilistici liberati tanto da aspettative ormai, forse,
nemmeno augurabili, quanto da reticenze consustanziali all'appartenenza
per nascita e scuola (semplificando) ad un Sistema che poco ama e
incoraggia le sfumature, per non parlare degli azzardi. La parabola
rovesciata di Dominic Matei (un Roth impegnato a tratteggiare i contorni
sfuggenti di una mestizia profonda e vasta da non avere neanche più
bisogno di un nome) che alla fine degli anni '30 viene fulminato -
letteralmente - sulle vie misteriose della conoscenza e della passione
e, in apparenza ringiovanendo, prende a muoversi in quelle
circonvoluzioni del tempo a ridosso delle quali perdono via via
consistenza gli avverbi che ne circoscrivono l'estensione (adesso, dopo, prima, et.), si apre, infatti, pressoché da subito, silenziosa ma irremovibile, alla dimensione informe dell'eterno secondo gli sviluppi di una ricerca insensata ed eccelsa come quella del graal assoluto,
ossia l'origine del linguaggio (e quindi dell'espressione della
coscienza, della meraviglia e dello strazio del mondo) per mezzo del
quale tentare di penetrare il segreto più intimo riposto in quell'altra e
ancor più conflittuale giungla che e' il cuore umano, a dire
l'amore, e testimonia, in tutta la sua innocente evidenza, lo sforzo di
Coppola di reagire al determinismo inflessibile della verosimiglianza, dell'aderenza remunerativa ad
un codice narrativo collaudato, con la suggestione davvero infinita dei
destini aperti, degli scarti emotivi subitanei miracolosi o
irrecuperabili, delle promesse ribadite quasi ad esorcizzarne la
plausibile irrealizzabilità, del peso invisibile ma costante di una
colossale solitudine, salda e dilagante ben oltre la prospettiva umana.
Simile
approccio si sposa, così, felicemente alla novella di Eliade dalla
quale il film prende le mosse e ci consegna - con l'itinerario di
Dominic - sia l'emblema di un tracciato sapienziale ambizioso e impossibile,
sia il riconoscimento di un moto interiore destinato a convergere in un
punto indistinto ma onnicomprensivo dove gli opposti, le analogie e le
metonimie si sciolgono in un inarticolato ineffabile e appagante che
abdica senza dolore alla logica. Di concerto, affida al solo sentimento
il gesto/(la rosa) dell'espressione, superando di slancio la
stessa presunzione di un'indagine smisurata (Dominic incontra
Veronica/Lara, con ogni probabilità reincarnazione del suo amor perduto,
anch'essa folgorata da un fulmine e perciò in grado di parlare idiomi antichissimi retrocedendo fino ai limiti del proto-linguaggio ma per tale prodigio -
ecco la giovinezza-senza-giovinezza, parentesi febbrile ma inappagata,
presa nel vincolo di attimi privilegiati ma contati - condannata a morte
prematura) e infine dona, distrattamente quasi, ad una Civiltà morente -
l'attuale - da sempre persuasa dall'orizzonte rigido per cui tutto
fuoriesce dal nulla per tornarvi, la prossimità/illusione di una
ierofania che sola aiuta non a comprendere ma a sentire quanto una rosa e' una rosa e' una rosa.
TFK