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Ostico se lo si considera prosa - Se Claudio Magris quando parla mi affascina quando scrive mi annoia.
Incuriosita dalla sua persona ho voluto approcciarlo con qualcosa di breve come questo racconto, ed ho fatto bene visto che mi è rimasto pesante pure questo.
Con questa premessa non voglio affermare che il libro sia brutto, probabilmente è soltanto rivolto ad una piccola schiera di persone molto colte che possono leggerlo senza affaticarsi e perdersi come è successo a me.
La storia in sé non mi ha fatto impazzire, ma forse, se lo scrittore non mi avesse così messa alla prova nella prima parte del racconto, avrei potuto anche apprezzarla.
L'inizio è veramente ostico, forse proprio per calarci nel mondo filosofico del protagonista, l'autore usa un linguaggio diffile, eccessivamente poetico per essere prosa.
Magris fa un uso della lingua inconsueto, talmente elitario che arriva quasi a sembrare una lingua diversa da quella considerata la nostra lingua madre, un modo di scrivere che ci appare straniero. La decifrazione è talmente impegnativa da far passare in secondo piano i concetti espressi, leggo e rileggo una frase, assorbita più dalla musicalità e dalla forma che dal contenuto.
La seconda e la terza parte sono scritte in un modo molto più accessibile, ma ormai il lettore è vinto, sfinito e non si riesce più ad apprezzare la maggior verità che vi si trova.
Citazioni:
"...di un grigio che non si sapeva se era un colore oppure lo stingersi di qualche colore eprduto."
" ...il dolore e la nullità delle cose, che vogliono sempre essere già state."
" l'amico che doveva empirmi tutto lo spazio ed essermi il mondo, ciò che io cercava"
"...navighi nel mare aperto senza cercare timoroso il porto e senza immiserire la vita nel timore di perderla."
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