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La risposta è: sì. Sì, fino a quando ci sarà qualcuno pronto a difendere la Costituzione repubblicana, che rappresenta il respiro di una storia comune e la sintesi di tutto ciò che la Resistenza voleva essere. Sì, ha senso celebrare il 25 aprile, l’esito finale del processo di Liberazione che consentì ai figli e alle figlie migliori del Paese di difenderne l’onore infangato dal fascismo, riconquistando la libertà per se stessi e la dignità per un popolo intero. Giovani senza nome, eroi spesso involontari dei quali vanno recuperate le biografie e vivificati gli ideali.
La conservazione della memoria è essa stessa atto di resistenza: distinguere i buoni dai cattivi, il bene dal male, chi lottava per la libertà e l’indipendenza da coloro che combattevano per il nazifascismo. Verità un tempo scontate, oggi insidiate da un revisionismo indulgente e sovente strumentale.
L’ultimo lavoro di Katia Colica, Un altro metro ancora (edito da Città del Sole) è impegno civile e “politico”, perché l’arte e la cultura diventano atti politici quando scandagliano la realtà e dichiarano una scelta di campo. Un “monologo sul bordo della vita” – come recita il sottotitolo – destinato al teatro, che racconta l’eroismo inconsapevole del protagonista Aitano: un canto vigoroso da dedicare a coloro che hanno resistito, resistono e resisteranno “a tutto l’orrore del mondo”.
Capita che pagine di intensa umanità siano scritte dagli Aitano della società, anonimi viandanti che con un gesto salvano se stessi e il mondo. Il protagonista di Un altro metro ancora non aspira a diventare eroe. Lacero e sporco decide di disertare dopo avere mescolato assieme paura e coraggio, spinto dal desiderio di riabbracciare la madre sfollata. Si ritrova però nel crocevia della Storia, accanto a un’umanità in fuga dall’orrore della guerra e bloccata davanti a un campo minato: “è stato lì che ho deciso”. Ed eccolo allora mettersi in testa al “millepiedi umano” che ha nei polmoni un unico soffio di vita e nelle orecchie il suo mantra, la raccomandazione ai compagni di calpestare le sue impronte (“questi sono i miei passi, e questi saranno i vostri passi”) per non rischiare di saltare in aria.
Lì, sul bordo della vita. Tra le voci e gli sguardi di un gruppo di sfollati calabresi decisi a tornare a casa ad ogni costo. Una storia di famiglia, ascoltata dalla voce della bimba fuori campo diventata molti anni dopo la mamma dell’autrice, in pagine marchiate dall’inchiostro dell’impegno civile e del lirismo (l’addio a Mina, che ospita Aitano accogliendolo come fosse il figlio che la guerra le aveva sottratto; la fine tragica della mamma del protagonista): il tratto distintivo della scrittura di Katia Colica.
Un altro metro ancora è la storia universale di Peppino Impastato e di tutti coloro che in ogni tempo e luogo contano e camminano, lottando per regalare all’umanità “cento passi ancora” di speranza. Ma è soprattutto una storia di “fedeltà”, che parla ai ragazzi di oggi di amore nei confronti della propria terra: un “amore potente, delicato, ostinato, amore testardo” al quale aggrapparsi per rinascere dopo ogni fallimento, rimettendo assieme i cocci dei sogni andati in frantumi. Per provare a ricostruire.
Per restare.
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