1963 1° ed.
Mondadori; 320 pp.
Ora la fissava in continuazione, la faccia ostentatamente voltata verso di lei. Ma Laide non pareva accorgersene. Senonché a un tratto, senza guardare, allungò la destra cercando una mano di Antonio. Lui le sussurrò in un orecchio: “Non ne hai abbastanza?”.
“Oh no” rispose Laide fingendo di non aver capito “io mi diverto un mondo, lo trovo così spiritoso.”
Se c’è un aspetto di questo blog in cui ho fallito miseramente riguarda tutto ciò che ha una consistenza cartacea. Libri fumetti e quant’altro. Non è che non leggo perché leggo, male – a saltelli, lascio a metà per poi riprendere ricordandomi poco, svogliato quando alcuni passaggi non mi solleticano e allora cerco di fare più in fretta possibile per superarli – e poco perché a parte tutto la mia media annuale di libri letti è inesorabilmente bassa.
Il casino vero è che sui libri ho parecchie difficoltà a scriverci. Ed è buffo dato che un film, alla fine, è più effimero di un romanzo che t’accompagna per giorni e giorni in ogni posto, dal cesso all’ufficio, e che quindi dovrebbe scendere ben bene sotto l’epidermide per dilatarsi nelle pieghe della vita quotidiana. Ma niente. Fogli di Word iniziati e cancellati, idee sparse niente di concreto.
Poi c’è un altro discorso. Che mi mancano i punti di riferimento, ho dei buchi mostruosi in letteratura e perciò senza coordinate mica è semplice orientarsi, si rischia di scrivere tante troppe sciocchezze.
Ciononostante di Un amore voglio dirvi.
Mi è piaciuto tanto, bello. Fin dal titolo che con quell’articolo indeterminativo generalizza non un, ma IL sentimento per eccellenza, e poi lo universalizza rendendolo di tutti, personificandolo come a dire che nei panni del povero Antonio Dorigo ci siamo passati e ancora ci passeremo. Ahimè data la perdita di dignità, fortunatamente per l’acquisizione d’uno slancio vitale che solo quelle cose lì possono dare.
Il romanzo ha coscienza propria con la sua insicurezza (forse troppe le domande autoriflessive) essendo raccontato “dalle spalle” dell’architetto innamorato che Buzzati annienta nella grigia realtà metropolitana, Milano che palpita, sfuma su carta, ai piedi di una ninfetta da poche lire, la Laide, animaletto indifeso o ferito, astuto o crudele. Una puttanella odiosa, difficile seriamente difficile da non amare alla follia, calpestandosi.
I meccanismi sono quelli: l’incontro, la frequentazione, il distacco, cose già viste. Sono meccanismi oliati però da un grande autore. Nei tormenti del Dorigo, così netti da essere tremendi nella loro realtà, vivono sogni disillusi dell’uomo di mezza età nella Milano bene degli anni ’60, inquietudini che però rintoccano attuali, presenti, purtroppo ordinari anche oggidì. E quando un autore coglie tali sensazioni senza tempo ha capito se non tutto direi molto della vita, e l’opportunità di leggere cosa ci ha scritto sopra è un vero e proprio dono.
Lo stile di Buzzati è sorprendente. Sorprendentemente vivo.
Ventitre anni dopo Il deserto dei Tartari e a nove dalla sua morte, Un amore è linguaggio raffinato preso dal marciapiede che se ne fotte delle regole e omette virgole e maiuscole, cambia modi verbali da un capoverso all’altro, lascia da parte la ligia osservanza alla sintassi per diventare strabordante nella descrizione della città con i suoi rumori, nuvole, smog, case chiuse, cuori sanguinanti e budelli al lumicino di una lanterna.
Nel finale poi, Buzzati va veramente a briglia sciolta regalando intense pagine di scrittura come non ne leggevo da tempo.
Un amore è il malinconico ritratto di un amore, di un uomo, di una città, di un mondo.
Nel 1965 Gianni Vernuccio diresse l’omonimo film ispirato dal romanzo con Rossano Brazzi e Agnés Spaak.