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Giovedì 11 giugno 2015
DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D’AMORE : Un amore che non accetti l’ingiustizia
Bisognerebbe dire no a tutti gli amori che tollerano tutto, perfino l’ingiustizia. La distrazione e la disattenzione e l’impazienza e lo scarto improvviso che conduce ai silenzi per niente sovrumani, piuttosto equivoci e vili. Le vane attese, come pure i silenzi interessati e il vuoto scambiato per mistero e fascino. Bisognerebbe accusare il mistero di sottrarre a noi l’incanto della parola che salva, perché pellegrina di pace. Lo sguardo per niente indagatore di chi non vede il nostro bisogno d’amore. E giustizia è salvare ogni cosa, anche i grumi più piccoli. A tutto essere sensibili. Tutto perdonare. Tutto comprendere. Tutto accettare. In nome di una giustizia che non abbia bisogno di sforzarsi di comprendere, che tutto sappia prevedere e accettare, che non debba fare fatica a perdonare malintesi ed equivoci, fraintendimenti e involontarie ambiguità. Di questo amore si dirà che è pronto a tollerare l’impuro, a trovare sempre la via che conduce al cuore delle cose, là dove la luce è fioca, fin troppo scarsa. Nella penombra della vita schiva, del rossore improvviso, dell’esitazione, degli scarti improvvisi. Negli ansiti brevi e nelle pause del cuore, nello stupore e nel terrore. Essere raggiunti proprio là dove si annida il timore di non essere trovati è divino. È tutto quello che si chiede alla vita. Non dover mai sperimentare il silenzio di chi non abbia nulla da dirci. «… Dalla polvere io innalzo una voce di protesta: voi non vedeste il mio lato in fiore!» lamenta il personaggio di Edgar Lee Masters contro la superficie del mondo. Quest’ultima, separata da ciò che è più proprio della vita di un uomo o di una donna, è solo vuoto simulacro, mai abitato prima d’ora. È comprensibile poi che si trovi deludente la risposta che verrà. Bisogna tenere insieme le opposte polarità, praticare l’idea che la verità tollera la contraddizione, saper custodire nel fondo dell’anima i materiali di scarto che sono stati utilizzati ed ogni palpito ed anelito. Questo è giusto come il pane.
Questa fame di giustizia potrebbe essere riconosciuta facilmente in ogni umano, se non ci fosse velo sugli occhi e la coscienza non si facesse vischiosa in chi continua a pensarsi amante e umano, magari compassionevole e solidale con il dolore altrui. Ad un mondo che si è abituato a non chiedere amore, perché preferisce l’apatia dei sensi e l’aridità del cuore, pur non di non patire la ferita che sanguina, non sapremmo cosa dire nella notte dei sensi, se non di fare luce sul deserto che avanza e che non educa ad altre trascendenze. A che vale averlo attraversato, infatti, e magari essere rimasti a lungo a fare esercizi, se poi non si nasce a nuova vita, inchinandosi dinanzi al piccolo che nulla chiede, se non di essere notato e nominato? È facile trascurare i grumi, magari facendosi prendere dal bagliore delle cose grandi, come se la vita fosse solo spostare macigni più in là! Meglio fermarsi a chiedersi la ragione dei massi e di tutto il resto, per non correre il rischio di non vedere i piccoli grumi fatti di inerzie e mancanze, mugugni e recriminazioni, di tutto l’Inconfessabile e non-detto e implicito e presupposto, dei rimproveri e degli sberleffi della fortuna, soprattutto nei momenti in cui la vita ci prende in giro.
Ci vorrebbe un’altra voce per riuscire a dire dove ci troviamo, e la risposta non è qui. Solo una mente ospitale, disposta a custodire tutto l’inespresso e l’implicito e il presupposto che ci precede, potrà accedere all’Inconfessabile che ci rende introvabili. Solo occhi di seconda vista potranno gettare uno sguardo sul viandante che noi siamo, senza pretendere che sia lui a dire la meta che lo guida e la patria che si lasciò alle spalle e le ragioni dell’andare. Come i vecchi situazionisti del secolo scorso, siamo scettici sulle mete e le patrie e le ragioni dell’andare. Preferiremmo condividere i sensi del nostro consistere con un altro viandante, a sua volta impegnato a professare una filosofia del mattino, la fedeltà alla terra, il congedo da chi tutto sa e tutto può e non ha mai tempo per chinarsi sui nostri grumi per sollevarsi fino a noi.