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Un apologo: tutti i libri che porto con me

Da Narcyso

frammento di marcoTutti i libri li porto con me; belli e brutti, non importa. Non riesco a confinarli in soffitta o a regalarli, come fa qualcuno: merce da macero.
Li metto dove li vedo adesso, sopra e sotto il piano di lavoro che copre gli scaffali, e così una parte di questa libreria è occlusa.
Ma ci sono tutti, quelli che compro e quelli che ricevo: dall’ultimo dei poeti fino al più sommo – e in realtà io non so dire perché sia sommo, forse solo perché qualcuno mi ha raccontato la sua storia, qualcuno più di altri, lo ha affisso agli angoli delle pubbliche piazze – .
Io non so dire perché un poeta è grande se non mi sussurra qualcosa di personale all’orecchio; ma so dire se è piccolo, so dire delle strade che non ha percorso mentre poteva, e se ha lasciato tracce mentre camminava; quelle tracce sono nella sua scrittura e nella mia parola, nel mio compito di riconsegnarla, se è piccolo, almeno in un angolo sparuto della piazza. Della mia libreria.
Perché i poeti, oggi, sono legione; sono talmente assetati di desiderio che ogni offesa li uccide, sono talmente soli che si accontentano di due sole righe appena scritte. Il poeta è un particolare tipo di uomo solo: il più disperato, forse.
Ma domani, domani, dopo la catastrofe, dopo i sopravvissuti, la distruzione di ogni cosa, di tutti i libri, di tutte le parole, di tutte le memorie… che cosa ne sapremo di cosa è stata la Bellezza se non avremo trovato almeno un lacerto, un titolo, una copertina franta? Che cosa ne sapremo della poesia alle porte della fine del mondo? Perché forse, in mancanza di grano, avremo bisogno della gramigna, di nutrirci di un titolo senza il suo libro, di una copertina strappata, di una parola smozzicata sopravvissuta alla fine. E sarà tanto importante sapere a chi sia appartenuta, se apparteneva all’ultimo dei paria o al più sommo dei poeti? Perché non ci apparirà la necessità delle vette ma la memoria delle fondazioni che affioreranno, lacerto per lacerto, bellissime tutte perché nutrite dalla nostalgia di una casa che non esiste più. Non ci apparirà, davanti, l’opera intera, la sua costruzione, ma il frammento struggente, il rumore del tempo. O la singola opera, solo quella, la singola, il manoscritto più prezioso perché unico, quello del peggiore dei poeti, la gramigna, eppure unico. Noi non giudicheremo, come fa il presente, ma contempleremo l’unicità, la bellezza del perduto:

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Ecco, dunque, non chiedetemi classifiche ma esempi, esempi di bellezza o complessità. Esempi di ingenuità, di possibilità. Di testimoniare della spoccheria, del vatino di turno, non chiedetemelo. E non chiedetemi, malgrado tutto, di archiviare negli scaffali di sopra e di sotto. Chiedetemi solo, se posso, se avrò ancora tempo, di testimoniare la parola. Perché anche la mia voce si estinguerà, un giorno, come tutto; parola imperfetta, trascinata per i capelli dai vizi del mondo.
Non chiedetemi di annusare il puzzo della parola. Se lo annuso, taccio, altrimenti distinguo. Non chiedetemi di fare l’esegesi, ho lasciato l’università proprio per non fare l’esegesi, perché chi fa la Storia, comanda, dice sì e no, spesso ubbidisce pensando di trasgredire.
Ecco, ricomincio il mio lavoro – soprattutto per me, prima che per gli altri, per quell’idea che ogni momento potrebbe essere l’ultimo, e una parola ha chiamato, si è mostrata in mezzo alle macerie e nessuno le ha dato voce.

Sebastiano Aglieco


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