Un’arte incarnatoria

Da Marcofre

Un’arte incarnatoria, scriveva Flannery O’Connor.  Per lei la narrativa quello era, perché ciascuno di noi ha a che fare con la realtà attraverso i sensi. Non le emozioni. Interessante vero?

Eppure se diamo un’occhiata ai consigli che certi autori di successo rifilano, che cosa troviamo?

  • Scrivete di quello che conoscete. (Tradotto in italiano: non siate ambiziosi, potreste scoprire che noi siamo dei mediocri e vi vogliamo tenere al nostro stesso livello).
  • Date al pubblico quello che vuole. (Traduzione: lasciati guidare da un cieco. Finirai in un burrone, ma sai le risate, durante il volo?).
  • Bisogna avere solo la volontà. (Vale a dire: il merito, il talento non esistono, sono bubbole. Devi solo volerlo. Come no).

Che cosa hanno in comune queste tre frasi? E perché sono sbagliate? Quello che le lega è che celebrano l’io dell’individuo. Lo solleticano. Non c’è una sola parola, nemmeno un semplice riferimento al mestiere di chi scrive. Che consiste nel raccontare storie. Ecco: non si parla di storie. Si parla di aria, infatti.

Mettersi al servizio della storia? Al diavolo!
Prendere a sberle il proprio egocentrismo per farlo stare al suo posto, o sono guai? Nemmeno per sogno!
Le persone? Ma se parlo di persone, come posso distrarre il mio pubblico?

Raccontare storie attraverso i sensi, non è un gioco al ribasso, ma una semplice accettazione della realtà. Quello siamo: udito, olfatto, vista, palato, tatto. Se vuoi comunicare devi passare attraverso la ciccia, la carne e il sangue insomma. Mi rendo conto che tutto questo è imbarazzante: non sappiamo (o non vogliamo?) parlare di cosa tanto materiali. Dobbiamo innalzarci. Da cosa?

L’unico modo che abbiamo di innalzarci è accettare quello che siamo. Rifiutarlo non ci rende superiori, ma solo paurosi. Si rincorrono le emozioni per sfuggire il mistero che è inchiavardato nell’uomo. È così intollerabile questo mistero, che se solo se ne accetta l’esistenza diventa poi necessario rivedere troppe basi della nostra esistenza. E per rivedere, occorre pensare, riflettere. Porsi domande. Tutto questo è terribile.

Un’arte incarnatoria invece stana il mistero. Quella brutta carnaccia che si muove nella metro, in auto, è soprattutto enigma. Conviene rassegnarsi.


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