Maestro di Cabestany - Cristo cammina sull'acqua - monastero di Sant Pere de Rodes (Gerona).
Prima di tutto, è necessario chiarire un particolare non trascurabile: la figura dell’artista, così come la conosciamo oggi, nasce solo nel corso del XVI secolo. Nel Medioevo non esiste la parola artista, perché non c’è differenza tra chi taglia le pietre e chi le scolpisce, tra chi fabbrica i colori e chi dipinge: il termine per designare tutte queste persone (che in alcuni casi coincidono perfino) è artifex, artefice, artigiano, esperto dell’arte, dove per “arte” s’intende le modalità del fare, le tecniche del mestiere. Siamo di fronte ad una concezione che non implica quella discriminazione che nascerà nel Cinquecento, quando, con l’idolatria dell’antichità, si separa l’artista, oggetto di un vero e proprio culto, dall’operaio, per il quale si sentirà solo disprezzo, perché nell’antichità il lavoro manuale è il lavoro dello schiavo. Soprattutto durante l’età feudale, invece, il lavoro manuale è profondamente connesso con il sacro, dal momento che l’ “ora, lege et labora“ di San Benedetto è tipico di quasi tutti gli ordini religiosi, il lavoro manuale è mezzo di ascesi e di santificazione; addirittura, alla fine del XIII secolo, ci si rivolta contro il fatto che l’architetto, che non lavora con le proprie mani, sia pagato meglio del muratore. Questo implica il fatto che l’artefice medievale, il più delle volte, rimane senza nome, nel senso che il singolo non emerge dalla categoria. Certo, ci sono delle eccezioni, in cui l’artefice ha lasciato la sua firma, o in cui si può riconoscere in opere diverse la stessa mano. E’ il caso, quest’ultimo, di uno scultore romanico della seconda metà del XII secolo, convenzionalmente chiamato dagli studiosi “Maestro di Cabestany” la cui figura è ancora avvolta nel mistero; anzi, la sua esistenza è ancora tutta da dimostrare perché il corpus delle opere che gli vengono attribuite non ha nemmeno una cronologia certa, anche se esiste sull’argomento una ricca bibliografia.
Chiesa di Notre-Dame de Cabestany
L’appellativo di “Maestro di Cabestany” fu coniato nel 1944 da uno storico dell’arte catalano, José Gudiol, il quale si era accorto che il timpano della chiesa romanica di Notre-Dame de Cabestany (piccolo comune alla periferia di Perpignan), e una serie di opere sparse tra la Navarra Spagnola e il Roussillon Francese, sembravano scolpite dalla stessa mano; credette di avere a che fare con un artista “regionale” che si muovesse prevalentemente nella zona della Linguadoca medievale, tra Francia e Spagna. Alla fine degli anni ’50, però, un altro studioso catalano, Edouard Junyent, scoprì due capitelli nell’abbazia di Sant’Antimo, presso Montalcino (Siena), che sembravano calzare a pennello con gli altri esempi. E non fu la sola sorpresa, se, circa dieci anni più tardi, lo studioso francese Louis Pressure ritrovò addirittura un’intera colonna istoriata con le stesse caratteristiche nella chiesa di San Giovanni in Sugarra, a sud di Firenze; a questa si aggiunsero altri tre capitelli scoperti nel Chiostro dei Canonici di Prato. Ce n’era abbastanza per innescare un dibattito infuocato tra gli studiosi, un dibattito che è tuttora in corso.
Timpano dalla chiesa di Notre-Dame de Cabestany
Il timpano scolpito che dà il nome al nostro artefice, proveniente dalla chiesa di Notre-Dame de Cabestany appartenuta ai Cavalieri di S. Giovanni in Gerusalemme, è tutto quel che resta di un portale scomparso durante alcuni pesanti restauri tra Ottocento e Novecento. Misura poco meno di 3 metri di lunghezza per poco meno di 2 di altezza, ed è di marmo di spoglio di Tolosa; a questa caratteristica si deve la forma semicircolare. Vi è rappresentato il ciclo dell’Assunzione della Vergine Maria. Colpisce come lo scultore si affanni a riempire ogni vuoto che si trovi davanti agli occhi (horror vacui), ottenendo un affollamento che ricorda molto da vicino quello tipico della scultura tardoantica; sarebbe impossibile, d’altra parte, scambiare questa per un’opera tardoantica, dal momento che l’autore evita categoricamente qualsiasi tipo di naturalismo, accentuando in modo quasi grottesco l’espressionismo dei volti e dei gesti delle figure, che richiamano quasi le coeve miniature della regione dei Pirenei. L’effetto d’insieme che si vede è una sorprendente plasticità, che sfrutta per un effetto drammatico perfino le naturali irregolarità della pietra. Particolare curioso, alla destra del Cristo è raffigurato San Tommaso Apostolo che mostra la cintura della Vergine: questa sarebbe la prima volta che questo particolare fa la sua comparsa. Diventerà comune solo a partire dal XIII secolo, ed è caratteristica proprio della città di Prato, dove d’altronde l’attività del Maestro è documentata.
Sarcofago di San Saturnino - Abbazia di Saint-Hilaire, Carcassonne.
Una delle prime opere attribuibili al Maestro di Cabestany sembra essere questo sarcofago-altare-reliquiario all’interno dell’Abbazia di Saint-Hilaire a Carcassonne, in cui è rappresentato il martirio di San Saturnino. Qui si nota ancora di più l’impostazione classicheggiante che ricorda un po’ i sarcofagi di epoca tardoantica, ma che al tempo stesso lo scultore stravolge ribaltando l’arco di prospettiva e popolandolo di maschere bestiali.
Daniele nella fossa dei leoni - Capitello dall'Abbazia di S. Antimo - Montalcino, Siena
Il capitello dell’abbazia di Sant’Antimo a Montalcino che, nel 1961, Junyent attribuì al Maestro di Cabestany, raffigura l’episodio biblico del profeta Daniele nella fossa dei leoni; si tratta di un soggetto molto ricorrente all’epoca, soprattutto nella regione della Linguadoca, in quanto Daniele viene assimilato a Cristo negli Inferi. I motivi per attribuirlo al nostro artefice ci sono tutti: l’espressività dei volti, i panneggi a forma di taglio, gli arti sproporzionati, e soprattutto la plasticità con cui sono resi gli animali. D’altronde, questa non è l’unica volta che il Maestro ha trattato il tema di Daniele nella fossa dei leoni in un capitello, come dimostrano alcuni capitelli e mensole provenienti dall’abbazia di Saint-Papoul, vicino Carcassonne.
Daniele nella fossa dei leoni - capitello, Saint-Papoul (Carcassonne).
Proprio nella rappresentazione dei leoni, il nostro artefice raggiunge un livello di maestria spaventoso, che tocca i vertici in uno straordinario capitello leonino proveniente dall’abbazia di Sant Pere de Rodes, presso Girona (Catalogna, Spagna), e in alcuni particolari scoperti dallo studioso americano David Simon nella chiesa de la Purificación di Villaveta (Pamplona).
Capitello leonino - abbazia di Sant Pere de Rodes (Girona)
Tutto lascia pensare che questi esempi spagnoli rappresentino una fase di maturità del maestro, successiva al periodo toscano.
Natività - fusto scolpito - dalla chiesa di S. Giovanni in Sugarra - Museo di S. Casciano in Val di Pesa (Firenze).
Forse appartiene ancora alla “prima maniera” del nostro artefice la colonnetta di marmo calcidico scolpita con le scene della Natività, scoperta da Pressure nella chiesa San Giovanni in Sugarra e oggi al Museo di San Casciano, forse utilizzata in origine come supporto per il cero pasquale. Lo si può capire dal “classicismo” ancora molto presente, ad esempio, nella figura del pastore appoggiato al bastone con le gambe incrociate che ricorda molto da vicino il Calcante del Cratere mediceo, anche se, come al solito, il Maestro non si limita a copiare ma lo interpreta, semplificandone la figura e trasfondendovi una forza straordinaria attraverso il gesto dell’angelo che lo tira per la barba. La stessa forma circolare a spirale della colonnetta è di ispirazione antica.
Fregio della Natività - chiesa di Sainte-Marie, Le Boulou
Il tema della Natività viene riproposto dal nostro artefice anche in un fregio sul portale della chiesa di Sainte-Marie di Le Boulou, vicino a Cabestany; si tratta di un fregio continuo che si arresta alla scena della Fuga in Egitto, soggetto inconsueto per la scultura di XII secolo.
Capitello dell'Assunzione - dalla chiesa di Sainte-Marie de Rieux-Minervois.
Anche il soggetto dell’Assunzione della Vergine, che avevamo già visto sul timpano di Notre-Dame de Cabestany, viene riproposto in un’altra veste. Lo ritroviamo infatti animare un capitello di arenaria grigia nella chiesa di Sainte-Marie de Rieux-Minervois, vicino Carcassonne. E’ sorprendente come il Maestro riesca ad ottenere lo stesso stile con materie prime diverse, segno di un adattamento straordinario.
Capitello dal Chiostro dei Canonici del Duomo di Prato.
Ma l’opera più caratteristica e interessante del nostro artefice sono i tre capitelli zoomorfi di serpentino provenienti dal Chiostro dei Canonici del Duomo di Santo Stefano a Prato; erano stati pesantemente danneggiati da un restauro negli anni ’50 e, fino a poco tempo fa, erano conservati al Museo dell’Opera del Duomo; ora sono stati ripristinati in loco. Si nota subito la somiglianza delle teste leonine con quelle del capitello di Sant Pere de Rodes.
Capitello dal Chiostro dei Canonici del Duomo di Prato.
Siamo dunque di fronte al primo esempio conosciuto di un artefice itinerante nel Mediterraneo del XII secolo, proprio nel periodo in cui le tracce documentano la nascita di poli in cui circolava cultura tra le due sponde del bacino come mai era accaduto.
Quel che sembra certo è che il Maestro di Cabestany fosse originario della Linguadoca. Sulla sua natura si sono fatte le ipotesi più svariate: si è pensato che fosse un monaco, per il fatto che le sue opere si trovano quasi esclusivamente nei monasteri; si è pensato fosse un architetto (anche se all’epoca la parola architetto non esisteva); alcuni hanno pensato addirittura che non si trattasse di un artefice singolo, ma di una bottega, i cui artigiani fossero richiesti un po’ dappertutto. Supposizioni, queste, che per ora rimangono tali perché mancano le prove.
Il particolare che intriga più di tutto gli studiosi, però, è il fatto che i monasteri toscani fossero così ben collegati con le regioni francesi, tanto da poter permettersi di richiedere uno scultore della Linguadoca. Un indizio interessante è sicuramente la traccia, nel timpano di Cabestany, del culto della Cintola della Vergine tipico di Prato: un manoscritto del XIV secolo parla dell’arrivo in città della preziosa reliquia nel 1141, nello stesso anno in cui i cavalieri di San Giovanni in Gerusalemme fondarono un ospedale e in cui la pieve di Santo Stefano assunse il titolo di cattedrale, segni inequivocabili dell’emancipazione della città. Come si vede, c’è un altro filo rosso che collega Prato a Cabestany: la presenza dei Cavalieri di San Giovanni. A completare il quadro, la sorpresa di ritrovare l’atto di debito di un sacerdote di Prato nei confronti di un marmorario, risalente al 1163: nulla vieta che questa possa essere la testimonianza della ristrutturazione di una chiesa, e che vi fosse coinvolto anche il nostro artefice occitano. Certamente la sua attività non andrebbe oltre il 1180.
In più, le indagini condotte sugli esemplari di Sant Pere de Rodes hanno rivelato che la maggior parte del marmo utilizzato dal Maestro di Cabestany veniva da Carrara: questo potrebbe essere un altro indizio della sua precedente attività toscana.
Bibliografia:
Peter Hubert, The Maître de Cabestany – a man or a workshop?
Laura Bartolomé Roviras, Presència i context del Mestre del timpà de Cabestany;
Laura Bartolomé Roviras, Itinerant versus pelegrí. El “periple” del Mestre del timpà de Cabestany, in “Porticum. Revista d’Estudis Medievals”, n.1, 2011, pp. 41-68;
Marco Burrini, Tre capitelli del Maestro di Cabestany nel chiostro del Duomo di Prato, in “Prato. Storia e arte”, vol. 36, n. 86 (1995), pp. 49-64;
Artifex Bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di Enrico Castelnuovo, Laterza, Bari, 2004;
Jean Gimpel, Contro l’arte e gli artisti. Nascita di una religione, Bollati Boringhieri, Torino 2000.