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Un assaggio de "Il Respiro del Fiume"

Creato il 06 maggio 2013 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Benares Settembre 1981.

Alle quattro del mattino, la luce è già sufficiente a Benares per attraversare la città e raggiungere uno dei cento ghat sul Gange.
Avvolta in un sari scolorito, una figurina sottile, con i capelli annodati, una lunga treccia saltellante e i piedi nudi, sguscia fuori casa e corre per i vicoli della città vecchia. Non presta attenzione agli escrementi di vacca e al sudiciume che insozza le strade, com’è sua abitudine in giorni più sereni. Passa come il vento in mezzo ai bimbi seminudi, ai lebbrosi, ai mendicati storpi, ai vecchi seduti sul marciapiede che giocano a centrare la sputacchiera.
Non bada neppure al lugubre tempietto del dio scimmia Hanuman, macchiato di polvere rossa come sangue. Supera le oscure botteghine di oggetti sacri, nel cuore del chowk, la fitta rete di vicoli alle spalle dei ghat immersa nell’odore pungente dell’incenso alla rosa e delle collane votive di gelsomini. Ansimando, s’accoda alla fila di pellegrini che scende verso il Manikarnika Ghat. Sull’ultimo gradino, appena sopra il livello delle acque, sosta per riprendere fiato.
Si guarda intorno.
Maestoso, surya[ sta sorgendo, ed illumina ad est uno spazio immenso, desertico. Sulla riva dove si trova lei, invece, si stendono sette chilometri di scalinate, bastioni, templi e palazzi di maharaja. Lungo i sacri scalini, la folla più misera del mondo compie le abluzioni rituali, prega, beve l’acqua infetta. Dalle pire funebri, il fumo continua a levarsi, acido, denso.
Nell’ora più santa del giorno, anche la ragazzina entra nel fiume e s’immerge fino alla vita. Spruzza l’acqua sul palmo delle mani, rivolta verso il sole, poi accende un lumicino di olio di canfora, lo depone sopra una foglia e lo affida al Gange. Tutto intorno, sant’uomini con le vesti color zafferano lasciano scivolare nel fiume le loro offerte che simboleggiano la luce che disperde l’ignoranza. Un’isola di fiammelle è catturata dalla corrente e fluttua verso l’Oceano Indiano. “Ganga mai ki jai! Sia lode alla Madre Ganga!”.
Anche la bambina prega: “Madre Ganga accogli la mia offerta.”
Quando tutte le preghiere che conosce sono esaurite, è ormai giorno fatto, il sole brucia e la gente cerca riparo sotto gli ombrelloni di paglia. I sannyasi restano immobili, in estasi, in comunicazione col sole.
In mezzo al fiume scivolano barconi carichi di turisti che scattano fotografie dei santoni in preghiera, della gente che si lava e delle cataste di legna coi morti che bruciano all’aperto.
La bambina torna sui propri passi, scosta una tenda scolorita ed entra in casa. Provenendo dal ghat luminoso ed affollato, la stanza le appare ancora più tetra e buia. Oltre una fila di stracci appesi ad asciugare, Urda, la vicina che aiuta sua madre, l’apostrofa con la bocca piena di betel, “ah, sei qui, non dovevi andartene proprio ora.” È una donna magra, di età indefinibile, con i capelli arruffati, priva di un incisivo. Glielo ha staccato suo marito con un pugno, prima di farle il dispetto di renderla vedova. Dal foro, proprio in mezzo alle labbra, cola giù il sugo rosso del paan.
La ragazzina si avvicina timorosa al letto dove sua madre, Auda, giace in una pozza di sudore sul lenzuolo sporco. Il volto olivastro è irriconoscibile, gli occhi, prima grandi, scuri ed umidi, appaiono come le orbite vuote di un teschio. Il respiro è un rantolo aspro che sa di vomito.
“Urdabhai?”
“Mmm…”
“Perché mia madre fa cosi?”
“Tua madre sta solo cercando di respirare.”
“Urdabhai?”
“Mmm…”
“Mia madre sta morendo?”
La vicina si limita a sospirare. Sputa sul pavimento un getto di saliva rossa.
“Urdabhai?”
“Mmm…”
“Mia madre guarirà?”
“Ti pare che possa guarire? È meglio se stai con lei, ora.”
La bambina si accoccola vicino al charpoi. Con una piccola mano incerta, tocca appena la spalla della madre. “Amma[5]…”
La malata apre le palpebre che sembrano diventate di carta, cerca di muovere la testa in direzione della voce ma può soltanto fissare il soffitto. “Han…?”[6]
“Mi senti, amma?”
“Urmilla…”
“Amma…”
“Urmilla, dove sei?”
“Qui, sono qui, amma. Non mi vedi?”
“No, non ti vedo… Non c’è luce, è notte.”
“No, amma, non è notte, é mattina! Sono le cinque e sono stata a pregare.”
“Hai fatto bene. Io non posso andarci, sono stanca. E poi, con questo buio. È così buio, oggi.”
“Amma! Non è vero! Non è buio! Non è…”
“Sai, Urmilla, ho visto il tuo baba. È venuto a trovarmi…” Un colpo di tosse la interrompe. Urda si accosta e le bagna la fronte con una pezza. “Eh, povera anima, sta delirando.”
Un altro accesso di tosse convulsa lascia la malata senza respiro. All’improvviso s’irrigidisce, digrigna i denti, strabuzza gli occhi e afferra il sari della figlia. “Urmilla!”
“Amma, per favore!”
Ansimante, spossata, il petto magro che si solleva in lunghi sospiri faticosi, Auda tace, lottando per respirare, poi parla di nuovo e questa volta le sue parole suonano meno frenetiche, più lucide. “Urmilla, la vita non è stata bella per me, ma tu sei una brava figlia.” Tace ancora, pare assopirsi.
Forse non muore. Oh, Shiva! Oh, Signore del mondo! Fa’ che non muoia! Fa’ che la mia mamma non muoia!
Passano alcuni minuti silenziosi, il respiro della malata si fa ogni istante più aspro. Attorno al charpoi ronzano le mosche, insistenti. Urda si muove nella stanza, strascicando i piedi. Sposta un oggetto, apre un mobile, lo richiude, sputa sul pavimento. Dalla strada provengono i suoni di tutte le mattine: vocio di bambini, richiami di madri esasperate, pianti di neonati, grida di venditori di caldo channa, di arrotini, di portatori di tè.
Mezz’ora dopo, le labbra di Auda si muovono ancora: “Sei così bello, Ahmed…”
La bambina si china sulla madre, terrorizzata dal suo corpo rigido, dal fiato rancido, dal rantolo che è ormai diventato il suo respiro. “Amma!”
La bocca di Auda si schiude, il naso si fa affilato, sibilante: “Ahmed…”
“Amma! Amma!”
“Sì, janum, sì, Ahmed, anima mia…”



La barella, intrecciata con sette pezzi di canna di bambù, è pronta. La bambina ha passato la notte a costruirla, vegliando il cadavere di sua madre. Con l’aiuto di Urda, ha lavato e rasato il corpo freddo di Auda, le ha segnato la fronte con polvere di sandalo, le ha unto i capelli con l’olio, le ha intrecciato indosso collane di fiori e strofinato denti e labbra con ramoscelli profumati. Infine, l’ha vestita col suo sari più bello, quello che Auda usava solo per Diwhali[7].
Manca poco all’alba, ormai. Urda russa in un angolo con in braccio il più piccolo dei suoi nipoti, un bimbo magro, rapato a zero, vestito appena di una cintura e di un mazzo di cavigliere. Con occhi sgranati, lucidi di kajal, il piccolo fruga la stanza in penombra.
Anche la testa della bambina ciondola sul petto. Le sue mani, però, stringono ancora un piede della madre. Per ore l’ha massaggiato. Ne conosce tutte le pieghe, tutte le asperità, dal piccolo indurimento sotto l’alluce, al rinforzo calloso del calcagno, dovuto all’abitudine di camminare scalza.
La testa della bambina cade in avanti ed ella si riscuote, sobbalzando. Riprende a massaggiare i piedi del cadavere, affannosamente, come se fossero ancora sensibili.
Urda apre prima un occhio, poi l’altro, quindi sbadiglia. “Smettila, adesso, bambina. Fra un’ora sarà bruciata, a che le servono i tuoi massaggi?”
“Tutte le figlie massaggiano i piedi delle madri.”
“Sì, ma delle madri vive.”
Il nipotino tende una mano verso la donna morta sul letto. “Auda!” chiama.
“Auda dorme, lasciala in pace”, lo rimprovera la nonna. Il piccolo alza il capo, fa bolle di saliva con le labbra increspate. Di tanto in tanto getta occhiate perplesse al corpo immobile. La vecchia si agita, impaziente. “Su, Urmilla, è quasi ora. Dobbiamo metterla sulla barella.”
“Aspetta, Urda. Solo un altro poco.”
“Guarda che ho da fare! Non posso stare qua tutto il giorno! I miei nipoti hanno fame.”
“Solo cinque minuti, Urda.”
“Va bene, ma fai presto. Si comincia a sentire l’odore.”
“Non è vero! Non c’è nessun odore, sono solo i fiori!” Urmilla si china a baciare i piedi di sua madre, poi le mani, poi il capo. Intinge l’indice nella polvere rossa e ripassa la tilak[8] sulla fronte, là dove le proprie labbra l’hanno un poco scolorita. Accomoda meglio le collane di gelsomini e sparge ancora margherite sul telo rosso che avvolge il corpo.
“Non hai badato a spese”, commenta Urda, schiacciando meccanicamente un pidocchio sulla testa del nipote.
“Mia madre aveva messo via i soldi per il suo funerale. Erano dentro una scatola.”
“È una fortuna che i topi non se li siano mangiati. Però hai fatto bene a prendere le cose migliori per la cremazione di tua madre. Si vive da cani, che almeno si muoia con dignità! Solo che ci vorrebbe un figlio maschio. E se non c’è un figlio maschio dovrebbe farlo un parente e se non c’è un parente…”
“Il parente c’è, Urda.”
“Lascia stare, sai come stanno le cose.”
“No, non lo so e andrò da lui perché voglio parlargli, ma prima devo cremare mia madre.”
“Non è una buon’idea.”
“Questo devo deciderlo io, non tu.”
“Ah, certo! Certo! Dicevo così, tanto per darti un consiglio. Ma tu i consigli non li ascolti mai! Ma ora farai come dico io. Ti porterò alla missione.”
“Non ci voglio andare. Mia madre non approverebbe.”
“Eh, figliola mia, dovrai imparare ad adattarti d’ora in avanti. La vita è quello che è. Tua madre viveva di poesie, di fiori, di preghiere. E cosa ci ha guadagnato? Guardala un po’ ora! Morta stecchita!”
Il nipotino allunga una mano verso Auda, emette bollicine di soddisfazione. “È morta, è morta!”
“Ti ho detto che dorme! Ah, bambina mia, le poesie e le preghiere non riempiono la pancia, mendicare riempie la pancia, prostituirsi riempie la pancia, cercare roba lungo la ferrovia riempie la pancia! Ma Auda no. No! Lei non si poteva abbassare. Credimi, era una sognatrice, una con la testa zeppa d’idiozie da casta superiore, di scemenze brahmaniche.”
La bambina strilla: “Lascia stare mia madre!”
“D’accordo, d’accordo, non ti arrabbiare, dicevo solo per aiutarti. In fondo vi volevo bene, a tutte e due. Tu non sei un maschio ma sei ugualmente una brava ragazza. Adesso, però, muoviti, che è tardi.”
Urda allontana di peso la bambina ed a fatica solleva il cadavere. Lo lascia cadere sulla lettiga con un tonfo sordo. Insieme, legano Auda alla barella e cominciano ad ungere di ghee e olio di canfora ogni parte del suo corpo, del sudario e delle canne di bambù.
“Ecco fatto”, dice Urda, “così le fiamme saliranno subito al cielo.”
Trascinano fuori la lettiga. La luce rosa dell’alba ferisce gli occhi della bambina, che per tutta la notte hanno pianto e vegliato nell’oscurità.
Prima di issare la barella, il carrettiere, che è in attesa, vuole vedere i soldi. Urmilla apre la mano e mostra un rotolo di rupie. L’uomo fa un segno d’assenso e prende a bordo il carico.
“Allora, bambina”, comincia Urda, poi s’interrompe. Nella sua voce s’indovina un’ombra di commozione. “Dì, sei sicura di farcela?” domanda infine.
La bambina fa segno di sì, poi si arrampica sul carretto, di fianco alla salma di sua madre avvolta nel drappo rosso. Urda saluta, raccoglie il nipote, poi attraversa il cortile.
Il carrettiere colpisce col bastone il muso del bue, la bestia s’incammina lenta, scuotendo ad ogni passo le corna dipinte ed il collo inghirlandato. La bambina, con una mano sul petto di sua madre, è seduta rigida sul carretto traballante che percorre tutta la Madampura Road, fino all’Harishandra Ghat.
Alla sommità del ghat c’è uno spazio di cemento destinato ai roghi, con paraventi per proteggere le persone dalle folate di calore. La bambina domanda al becchino il prezzo del legno e degli aromi poi estrae dal seno il suo rotolo di rupie, assottigliato dopo il pagamento del carrettiere.
L’uomo vi punta due occhi rapaci. “Femmine!”, ripete sputando a terra un getto di paan che per poco non colpisce la bambina in pieno petto. “Femmine! Dove andremo a finire!” Afferra tutti i soldi ed indica un mucchio di legna di poco valore.
“È legnaccia!” s’indigna la bambina.
“Sentila, la signora! Con quei quattro soldi non pretenderai una catasta di legno di sandalo come i ricchi?!”
La bambina s’impunta. “Ti ho dato tutte le rupie che avevo; tutte quelle che mia madre aveva messo da parte per il suo funerale! Mia madre si merita il meglio, era una brahmani, lei!”
“Sì, e io sono Rama!”
Senza dargli retta, la bambina si lancia verso un mucchio di legno pregiato.
Il becchino cerca di fermarla. “Ehi! Che fai?!”
“Voglio un pezzo di sandalo da mettere in bocca a mia madre!”
La bambina sceglie con cura un piccolo pezzo di legno, scosta il sudario dal volto di Auda e forza i denti serrati dal rigor mortis. Introduce il legno nella bocca e la richiude. “Ecco, amma, così.”
Auda sembra una statua di cera. La bambina pensa che è davvero l’ultima volta che vede il volto di sua madre e qualcosa la prende allo stomaco. Le lacrime sono spille brucianti che bucano gli occhi. Si sforza per trattenerle.
Il becchino solleva la salma e scende verso il fiume, subito seguito da una mucca, pronta ad inghiottire i fiori che cadono dal corpo. Auda viene immersa nell’acqua purificatrice, unta di ghee[9] e issata sulla pira.
La bambina compie cinque giri attorno alla catasta, sparge acqua da un recipiente che poi spezza, mentre il becchino aspetta impaziente e la gente intorno guarda sconcertata. Sul cemento del ghat sono scritti i nomi di quelli che vi sono stati cremati. La bambina evita di guardarli perché sono davvero troppi.
Il becchino le porge una torcia. “Dove andremo a finire”, ripete, “dove andremo a finire se ora mandano le bambine ai funerali e le fanno girare intorno alle pire come fossero maschi. Sai almeno cosa devi fare?”
La bambina fa segno di sì.
“E credi di poterlo fare da sola?”
Ancora la bambina conferma, ma trema un po’. Fa del suo meglio per appiccare il fuoco ai quattro angoli della pira. Il legno unto prende subito fuoco, le fiamme lambiscono il sudario, poi lo avvolgono. Il corpo s’accende, crepita, s’inarca, sembra levarsi a sedere. La bambina guarda con gli occhi sbarrati. Si ritira in un angolo, come un animale impaurito, e si accovaccia sul cemento del ghat. Rimane tutto il tempo a guardare mentre sua madre arde.
Le hanno insegnato che non si deve piangere per chi muore, perché la morte fa parte della vita e chi ha vissuto senza colpa rinasce più puro. Eppure ha un groppo duro in gola, e le lacrime ora traboccano. Tira su col naso, sente sapore di sale e di moccio.
Il becchino la guarda, storcendo la bocca, scuotendo la testa, biascicando ingiurie contro chi permette alle femmine di comportarsi da maschi invece di stare in casa e pensare a sposarsi. Perciò quelle lacrime vanno ricacciate indietro proprio come farebbe un maschio. Per non piangere, la bambina si sforza di pensare a com’era sua madre quando stava bene, al suo sorriso mesto, ai suoi occhi gravi, ai suoi piedi nudi che scivolavano indifferenti sul fango della vita. Auda non vorrebbe le sue lacrime. Auda, davanti ad ogni cosa, metteva la dignità.
Però, ora, Auda è là sotto, che si accartoccia e scoppia sulla pira, in quel lezzo d’ossa bruciate e fumo, mescolato all’odore forte ed umido del fiume. E lei non la vedrà più, non le racconterà più cosa hanno detto le altre bambine alla fontana, non udrà più la sua voce roca che dice che non bisogna mai aver paura.
Ha paura, invece, e la paura è un buco nero dentro la pancia, come quando ti fa male qualcosa che hai mangiato. No, di più, molto di più.
Alcune ore dopo, armato di pinze di ferro, un inserviente raccoglie le ossa carbonizzate in un vaso di terracotta. Le fa cenno di avvicinarsi. Lei si costringe ad alzarsi, a muovere le ginocchia intorpidite dall’immobilità. Si accosta tremando alla pira fumante.
L’uomo le mostra qual è il teschio. Lei lo guarda, spaventata, affascinata, senza più un filo di saliva nella bocca. Quella cosa nera, rovente, raggrinzita, è quel che resta della bella faccia di sua madre.
“Ti muovi? Ho altri quattro funerali stamattina.”
Il punteruolo di bambù non è pesante, ma lei deve tenerlo con entrambe le mani, da quanto tremano. Stringe le nocche attorno al legno fino a sbiancarsele, fino a farsi male. Si concentra, prende la mira.
Colpisce.
È un colpo debole, la testa carbonizzata si sposta appena, il punteruolo scivola di lato.
La bambina ci riprova, colpisce più forte, tanto da ferirsi le mani. Questa volta la testa annerita sobbalza, ma niente di più.
“He, Ram! Vuoi ridurla in polpette?! Vuoi farci il macinato?”
La bambina inghiottisce lacrime di vergogna. “Mi dispiace”, si scusa, “io non…”
“Da’ qua!” L’uomo le strappa di mano il punteruolo. Con due colpi secchi fracassa il cranio di Auda e libera la sua anima.
Più tardi, con il vaso delle ceneri stretto al petto, la bambina scende l’ultimo scalino del ghat, per raggiungere la barca che la porterà al centro del fiume, dove potrà spargerle nell’acqua. I suoi occhi sono asciutti, adesso, e tiene alta la testa.
Stringe con forza il vaso sul cuore

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“Ti ho detto che dorme! Ah, bambina mia, le poesie e le preghiere non riempiono la pancia, mendicare riempie la pancia, prostituirsi riempie la pancia, cercare roba lungo la ferrovia riempie la pancia! Ma Auda no. No! Lei non si poteva abbassare. Credimi, era una sognatrice, una con la testa zeppa d’idiozie da casta superiore, di scemenze brahmaniche.”
La bambina strilla: “Lascia stare mia madre!”
“D’accordo, d’accordo, non ti arrabbiare, dicevo solo per aiutarti. In fondo vi volevo bene, a tutte e due. Tu non sei un maschio ma sei ugualmente una brava ragazza. Adesso, però, muoviti, che è tardi.”
Urda allontana di peso la bambina ed a fatica solleva il cadavere. Lo lascia cadere sulla lettiga con un tonfo sordo. Insieme, legano Auda alla barella e cominciano ad ungere di ghee e olio di canfora ogni parte del suo corpo, del sudario e delle canne di bambù.
“Ecco fatto”, dice Urda, “così le fiamme saliranno subito al cielo.”
Trascinano fuori la lettiga. La luce rosa dell’alba ferisce gli occhi della bambina, che per tutta la notte hanno pianto e vegliato nell’oscurità.
Prima di issare la barella, il carrettiere, che è in attesa, vuole vedere i soldi. Urmilla apre la mano e mostra un rotolo di rupie. L’uomo fa un segno d’assenso e prende a bordo il carico.
“Allora, bambina”, comincia Urda, poi s’interrompe. Nella sua voce s’indovina un’ombra di commozione. “Dì, sei sicura di farcela?” domanda infine.
La bambina fa segno di sì, poi si arrampica sul carretto, di fianco alla salma di sua madre avvolta nel drappo rosso. Urda saluta, raccoglie il nipote, poi attraversa il cortile.
Il carrettiere colpisce col bastone il muso del bue, la bestia s’incammina lenta, scuotendo ad ogni passo le corna dipinte ed il collo inghirlandato. La bambina, con una mano sul petto di sua madre, è seduta rigida sul carretto traballante che percorre tutta la Madampura Road, fino all’Harishandra Ghat.
Alla sommità del ghat c’è uno spazio di cemento destinato ai roghi, con paraventi per proteggere le persone dalle folate di calore. La bambina domanda al becchino il prezzo del legno e degli aromi poi estrae dal seno il suo rotolo di rupie, assottigliato dopo il pagamento del carrettiere.
L’uomo vi punta due occhi rapaci. “Femmine!”, ripete sputando a terra un getto di paan che per poco non colpisce la bambina in pieno petto. “Femmine! Dove andremo a finire!” Afferra tutti i soldi ed indica un mucchio di legna di poco valore.
“E’ legnaccia!” s’indigna la bambina.
“Sentila, la signora! Con quei quattro soldi non pretenderai una catasta di legno di sandalo come i ricchi?!”
La bambina s’impunta. “Ti ho dato tutte le rupie che avevo; tutte quelle che mia madre aveva messo da parte per il suo funerale! Mia madre si merita il meglio, era una brahmani, lei!”
“Sì, e io sono Rama!”
Senza dargli retta, la bambina si lancia verso un mucchio di legno pregiato.
Il becchino cerca di fermarla. “Ehi! Che fai?!”
“Voglio un pezzo di sandalo da mettere in bocca a mia madre!”
La bambina sceglie con cura un piccolo pezzo di legno, scosta il sudario dal volto di Auda e forza i denti serrati dal rigor mortis. Introduce il legno nella bocca e la richiude. “Ecco, amma, così.”
Auda sembra una statua di cera. La bambina pensa che è davvero l’ultima volta che vede il volto di sua madre e qualcosa la prende allo stomaco. Le lacrime sono spille brucianti che bucano gli occhi. Si sforza per trattenerle.
Il becchino solleva la salma e scende verso il fiume, subito seguito da una mucca, pronta ad inghiottire i fiori che cadono dal corpo. Auda viene immersa nell’acqua purificatrice, unta di ghee[9] e issata sulla pira.
La bambina compie cinque giri attorno alla catasta, sparge acqua da un recipiente che poi spezza, mentre il becchino aspetta impaziente e la gente intorno guarda sconcertata. Sul cemento del ghat sono scritti i nomi di quelli che vi sono stati cremati. La bambina evita di guardarli perché sono davvero troppi.
Il becchino le porge una torcia. “Dove andremo a finire”, ripete, “dove andremo a finire se ora mandano le bambine ai funerali e le fanno girare intorno alle pire come fossero maschi. Sai almeno cosa devi fare?”
La bambina fa segno di sì.
“E credi di poterlo fare da sola?”
Ancora la bambina conferma, ma trema un po’. Fa del suo meglio per appiccare il fuoco ai quattro angoli della pira. Il legno unto prende subito fuoco, le fiamme lambiscono il sudario, poi lo avvolgono. Il corpo s’accende, crepita, s’inarca, sembra levarsi a sedere. La bambina guarda con gli occhi sbarrati. Si ritira in un angolo, come un animale impaurito, e si accovaccia sul cemento del ghat. Rimane tutto il tempo a guardare mentre sua madre arde.
Le hanno insegnato che non si deve piangere per chi muore, perché la morte fa parte della vita e chi ha vissuto senza colpa rinasce più puro. Eppure ha un groppo duro in gola, e le lacrime ora traboccano. Tira su col naso, sente sapore di sale e di moccio.
Il becchino la guarda, storcendo la bocca, scuotendo la testa, biascicando ingiurie contro chi permette alle femmine di comportarsi da maschi invece di stare in casa e pensare a sposarsi. Perciò quelle lacrime vanno ricacciate indietro proprio come farebbe un maschio. Per non piangere, la bambina si sforza di pensare a com’era sua madre quando stava bene, al suo sorriso mesto, ai suoi occhi gravi, ai suoi piedi nudi che scivolavano indifferenti sul fango della vita. Auda non vorrebbe le sue lacrime. Auda, davanti ad ogni cosa, metteva la dignità.
Però, ora, Auda è là sotto, che si accartoccia e scoppia sulla pira, in quel lezzo d’ossa bruciate e fumo, mescolato all’odore forte ed umido del fiume. E lei non la vedrà più, non le racconterà più cosa hanno detto le altre bambine alla fontana, non udrà più la sua voce roca che dice che non bisogna mai aver paura.
Ha paura, invece, e la paura è un buco nero dentro la pancia, come quando ti fa male qualcosa che hai mangiato. No, di più, molto di più.
Alcune ore dopo, armato di pinze di ferro, un inserviente raccoglie le ossa carbonizzate in un vaso di terracotta. Le fa cenno di avvicinarsi. Lei si costringe ad alzarsi, a muovere le ginocchia intorpidite dall’immobilità. Si accosta tremando alla pira fumante.
L’uomo le mostra qual è il teschio. Lei lo guarda, spaventata, affascinata, senza più un filo di saliva nella bocca. Quella cosa nera, rovente, raggrinzita, è quel che resta della bella faccia di sua madre.
“Ti muovi? Ho altri quattro funerali stamattina.”
Il punteruolo di bambù non è pesante, ma lei deve tenerlo con entrambe le mani, da quanto tremano. Stringe le nocche attorno al legno fino a sbiancarsele, fino a farsi male. Si concentra, prende la mira.
Colpisce.
E’ un colpo debole, la testa carbonizzata si sposta appena, il punteruolo scivola di lato.
La bambina ci riprova, colpisce più forte, tanto da ferirsi le mani. Questa volta la testa annerita sobbalza, ma niente di più.
“He, Ram! Vuoi ridurla in polpette?! Vuoi farci il macinato?”
La bambina inghiottisce lacrime di vergogna. “Mi dispiace”, si scusa, “io non…”
“Da’ qua!” L’uomo le strappa di mano il punteruolo. Con due colpi secchi fracassa il cranio di Auda e libera la sua anima.
Più tardi, con il vaso delle ceneri stretto al petto, la bambina scende l’ultimo scalino del ghat, per raggiungere la barca che la porterà al centro del fiume, dove potrà spargerle nell’acqua. I suoi occhi sono asciutti, adesso, e tiene alta la testa.
Stringe con forza il vaso sul cuore.

Il Respiro del Fiume, Libro di Patrizia Poli - - Narrativa - ilmiolibro.it

Il Respiro del Fiume, di Patrizia Poli Narrativa 210 Storia di ampio respiro, corale, complessa, eppure di immediata presa, dove i personaggi, tutti, di volta in volta, diventano protagonisti ...

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