Un bordo vertiginoso ma non trascinante

Creato il 24 dicembre 2013 da Annalife @Annalisa

Un bordo poco chiaro

Mi ricordo che quando ero ragazza girava uno che si chiamava Manrico, e mi sembrava un nome splendido, anche se solo dopo ho scoperto che era lui a cantare la cabaletta del Trovatore. Non so se questo mi ha Il Gianrico, per assonanza, mi è stato subito simpatico, all’inizio.
O forse è stato che l’ho incontrato a una presentazione di un suo libro, in un paesone, con poche persone che pendevano dalle sue labbra e lui che è stato convincente, coinvolgente, e poi era comunque sostenuto dai gialli dell’avvocato Guerrieri, che mi sono piaciuti assai.
Certo, poi Il Gianrico ha cominciato a frequentare Mantova e poi Torino e a essere intervistato a destra e a manca e a mettere su un po’ di puzza sotto il naso; ha cominciato (secondo me!) a tirar fuori dai cassetti cose scritte chissà quando, ché gliele pubblicavano comunque (tanto decantato, “Non esiste saggezza” è un raccogliticcio insieme di storie più o meno –spesso: meno– belle; e anche “Il silenzio dell’onda”, per quel che mi ricordo, non è una gran meraviglia).
Fuori dalla parentesi, riscrivo “per quel che mi ricordo”. Infatti, se è vero che leggere due o tre gialli in fila di Guerrieri può, di primo acchito, davanti a una domanda precisa, farmi

…e Carofiglio dopo

comprensibilmente confondere sulle trame, è anche vero che dei libri appena nominati sopra il ricordo è assai sbiadito.
Di questo di cui vorrei (finalmente) parlare, idem.
Perché, vedete, mi sono messa qui convinta di fare una recensione di un libro letto una settimana fa e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: ma l’ho finito? Forse dovrei finirlo, prima di parlarne. E solo dopo averci pensato ben bene, sono arrivata alla conclusione che, sì, l’avevo letto e finito, solo che non me lo ricordavo. Certo, dai e dai, mi è anche venuta in mente, la fine, ma già da qui si capisce che non è una cosa memorabile. Aggiungiamo che forse, a pensarci bene, si potrebbe persino apprezzarlo, un finale così, un po’ in sottotono. Fatto sta, però, che oltre a essere in sottotono, ora che l’ho presente devo aggiungere anche un’impressione di taglio brusco. Sapete, come quando qualcuno fa una recensione e dice: questo qui ha aggiunto delle pagine per arrivare alla fine? Ecco, qui il contrario: è come se avessero detto a Carofiglio: a pagina tale, stop. E lui, obbediente, stop. Finale aperto, immaginate voi. Magari tornate indietro per capire se il finale che immaginate sarà possibile o meno. O per capire se avete veramente capito.
Per il resto, quando uno scrive bene, scrive bene. E Carofiglio (IMHO) sa scrivere, quando vuole. Qui si imbarca in un avanti-indietro presente-passato, ricordi-fatti, all’inizio non troppo agevole ma interessante. La trama, che alcuni hanno definito appassionante, è quella che è: i ricordi di un uomo adulto, legati agli anni del liceo. L’unica figura davvero rimarchevole, Salvatore, alla fine risulta un po’ tagliata con l’accetta, per come si comporta, per ciò che dice, e per il suo destino; avrebbe meritato altro. Più complessa (arzigogolata?) la figura del protagonista che però, alla fine, risulta più apprezzabile e interessante da ragazzino rispetto all’adulto, così come sono più curiosi, per il lettore, i capitoli che ricostruiscono, frammentandoli e ricostruendoli, gli anni che poi portarono alcuni dalle assemblee di istituto alla lotta armata.
Per il resto, non se ne può più degli insegnanti che entrano in aula e fanno lezione in modo appassionante e meraviglioso, fanno innamorare (platonicamente o meno) gli alunni citando questo e quello e recitando brani a memoria e estraendo dalle giuovani menti il succo della vita.
Detto da un’insegnante che, per il momento, sarebbe grata di riuscire a insegnare anche soltanto un po’ di grammatica.

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