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Un boss in salotto

Creato il 18 gennaio 2014 da Af68 @AntonioFalcone1

1Nord Italia. In una villetta linda e pinta, uguale a tante altre che le stanno intorno, vive la famiglia Coso: Cristina (Paola Cortellesi), casalinga ispirata, che sin dal risveglio inneggia proclami su efficienza e massima operatività, rivolti sia ai due pargoli, Vittorio (Saul Nanni) e Fortuna (Lavinia De’ Cocci), sia al marito Michele (Luca Argentero), il quale lavora come addetto marketing presso le locali Imprese Edili Manetti, in attesa di una probabile promozione. Al raggiungimento dell’avanzamento di carriera la donna collabora alacremente, cercando di attirare l’ attenzione della signora Doriana (Angela Finocchiaro), vera manager delle suddette imprese, ereditate dal padre, nonostante al posto di comando vi sia il consorte Carlo (Ale – Alessandro Besentini), non particolarmente dotato di acume finanziario.
A sconvolgere la tranquilla esistenza della sunshine family, ecco il passato ripresentarsi a Cristina nelle vesti del fratello Ciro (Rocco Papaleo) che la donna, Carmela all’anagrafe, ha fatto credere morto ai familiari, così da eliminare definitivamente ogni riferimento alle proprie origini meridionali.
Sospettato di associazione a delinquere di stampo camorristico, in attesa del processo, il presunto boss ha indicato proprio la dimora della sorella come luogo per adempiere agli arresti domiciliari …

Paola Cortellesi

Paola Cortellesi

L’anno nuovo non inizia sotto i migliori auspici per la commedia italiana: nonostante la strategia distributiva di smarcarsi dalle abituali nostrane uscite in salsa natalizia, Un boss in salotto, sceneggiato e diretto da Luca Miniero, non si discosta più di tanto dalle realizzazioni che lo hanno preceduto in sala. Sotto le ormai consuete toppe, variamente denominate (“piacevolezza complessiva”, “valide prove attoriali”, “incassi elevati”), si nasconde un vestito ormai consunto, la riproposizione della contrapposizione Nord- Sud già delineata dal regista nel dittico Benvenuti al Sud/Benvenuti al Nord, con i felici risultati espressi nel primo titolo (fedele remake del francese Giù al Nord, 2009, Bienveneu chez les Ch’its, 2009, Dany Boon) malamente tesaurizzati nel secondo. Un tema caro a Miniero, che lo aveva affrontato, con riusciti toni stranianti e surreali, sin dai tempi di Incantesimo napoletano, co-diretto con Paolo Genovese nel 2002. Il film ha un avvio abbastanza lento nel presentare le carte in tavola, la raffigurazione di una nordica provincia tutta produttività ed efficienza, al cui interno la famiglia Coso è ormai integrata, grazie soprattutto alla ferma determinazione di Cristina, ben rappresentata da una Cortellesi sicuramente brava, ma che qui deve fare i conti con un’impostazione del personaggio sin troppo forzata nella proposizione di triti clichés.

Rocco Papaleo

Rocco Papaleo

Ugualmente valida l’interpretazione dell’amorfo Michele offerta da Argentero, un uomo che si “illumina d’immenso” solo a fine giornata, quando può dedicarsi al suo diorama ferroviario e giocare al capostazione, così come sono riuscite le caratterizzazioni delineate dai due bambini, nel visualizzare la costrizione in un percorso obbligato ad entrambi non propriamente congeniale. Una volta entrato in scena Ciro/Papaleo, la cui manifesta indolenza evidenzia quanto, a volte, possano essere labili i confini fra uomo ed attore, la narrazione inizia a prendere vita, grazie a qualche battuta azzeccata del nostro, il quale si esprime in un curioso slang volto a mescolare vari dialetti del Sud Italia (con prevalenza ovvia del lucano).
Nella comicità scaturente dall’inevitabile contrasto fra un modo di fare e presentarsi quantomeno rozzo e l’eleganza ostentata dalla sorella, la quale vede profanato il suo santuario familiare e minate le possibilità di un ulteriore avanzamento sociale, la reiterazione di gag (fra cui quella, indigeribile, a spese del gatto della vicina), situazioni e battute incentrate su luoghi comuni, stereotipi, diversità di pensiero, sconfinanti anche nel ramo culinario, non trovano però adeguata enfasi e caratterizzazione portante, anzi si perdono nei rivoli di un ritmo altalenante e discontinuo, dovuto, almeno a mio parere, a palesi vuoti di sceneggiatura.

Luca Argentero

Luca Argentero

Né offrono rimedio al riguardo altre valide prove recitative, come quelle offerte dalla coppia Finocchiaro- Ale, i quali mettono in campo uno scontro, rispettivamente, fra efficienza e cialtroneria che richiama Il vedovo di Dino Risi, ’59, ma non sfrutta appieno le sfumature caratteriali che i personaggi potrebbero offrire. Il legame con la realtà, una non più florida azienda del Nord che, dismessi gli abiti del perbenismo ipocrita e della purezza adamantina, necessita di “investire” nella camorra per avere a disposizione immediata liquidità, la subitanea ascesa sociale della famiglia Coso all’insegna del “rispetto”, la messa alla berlina del consumismo come inedito status sociale, sono tutti temi che avrebbero necessitato di un maggiore approfondimento e conseguente più incisiva caratterizzazione dei protagonisti, lasciati invece alla dimensione di macchietta, intenti a galleggiare in un’amena sospensione rivolta all’intrattenimento senza colpo ferire, per un risultato complessivo più simile, e forse consono, ad una fiction televisiva che alla dimensione cinematografica.
Il cedimento definitivo si ha nel finale “pastiera e vino”, sostituendovi i consueti tarallucci, dove tutto si fa eccessivamente sbrigativo, con l’evidente forzatura di un volemose bene stiracchiato: penalizzato dai tagli apportati (il richiamo all’infanzia di Ciro e Carmela, affidato ad una fugace inquadratura di una foto invece che al previsto flashback) ripropone, banalizzandolo, il tema proprio dei citati film precedenti.

Ale  (Alessandro Besentini) ed Angela Finocchiaro

Ale (Alessandro Besentini) ed Angela Finocchiaro

Siamo sempre infatti dalle parti di Benvenuti al Sud: lo scontro che si evolve in confronto, accettarsi così come si è, magari prendendo ciò che vi è di buono ora dall’uno, ora dall’altro, la speranza di superare l’intolleranza, qui affidata alla consapevolezza di un possibile cambiamento solo all’interno del nucleo familiare, ricomposto nella sua genuina essenza. Se Miniero avesse avuto più coraggio e determinazione nel (ri)proporre l’idea a lui tanto cara, optando per uno stile univoco (vedi l’alternarsi dei toni grotteschi proposti in alcune scene, come la “riqualificazione” di Michele, destinato ad un ufficio/scantinato una volta che Ciro è stato scagionato) e meno pretestuoso, come la cattiveria gestita solo in superficie, Un boss in salotto avrebbe potuto essere una più che valida commedia, dai toni ben definiti e con un chiaro assunto socio- culturale, non il solito panem et circencens offerto in chiave cinematografica.


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