Traggo dal volume di lettere di John Ruskin “Viaggi in Italia, 1840-1845″, Firenze, Passigli, 1985, che ho incrociato per motivi vari:
Parma, giovedì 10 luglio [1845]
“L’altro giorno, a Bologna, ho inciampato in una povera creaturina che giaceva sul selciato, immersa all’apparenza nel sonno eterno; forse era sfinita per l’inedia. Mi sono fermato all’istante… non certo mosso a compassione, bensì affascinato dalle pieghe della camicia a brandelli che mal celava il petto smilzo. Se non ho negato l’obolo alla madre, non è stato per un atto di carità: mi premeva che scacciasse le mosche mentre eseguivo lo schizzo”
E già questo, direte, basterebbe a chiudere la partita, direte. Invece no:
Como, domenica 20 luglio [1845]
“In vita mia non avevo mai visto niente di così spaventoso come lo stato in cui si è ridotta l’Italia. In questo paese non ho mai incontrato nessuno, fra la gente del posto, che sembrasse una creatura della mia stessa specie [...] il giorno del Giudizio deve essere senz’altro prossimo, ma se fossi il diavolo, non comprerei questi italiani per arrostirli nemmeno per un quarto di penny: esalano già un fetore repellente!”
Che dire, oltre alla considerazione del titolo (alla quale si potrebbe rispondere “e vabbuò, ma faceva l’artista, mica il filantropo”), ci sarebbe anche da far notare un delicatissimo e senz’altro di buon gusto humour inglese, nonché il fatto che un ventiseienne figlio di papà ritenesse di aver già capito tutto della vita. E dell’Italia. Anche se proprio tutti tutti i torti non deve averli avuti.