(Pubblicato sul Forum Teatro di Kataweb il 16 febbraio 2003)
Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento, diceva. Falsa modestia o schietta vanità?
Lo ricordo – mille anni fa, almeno – in un recital al Teatro Carignano di Torino. Fu un’esperienza per me straordinaria. Quasi uno shock. Ma salutare. Ero poco più che adolescente, abituato a tutt’altro genere di spettacolo. Lui sul palco stava solo – la scena buia, una luce addosso – e leggeva I Canti Orfici circondato da un silenzio spesso. La sua voce possedeva timbri e colori così intensi da spezzare l’aria intorno al pubblico. Ogni parola per un istante si materializzava e poi esplodeva, tracciando traiettorie imprevedibili. Pareva una musica.
Carmelo Bene ha costituito nella storia del teatro un caso unico e irripetibile. Una cometa anomala, che viaggiava per galassie tutte sue. S’inventava continuamente, in scena come nella vita. Prendere o lasciare. Eccessivo, ambizioso, provocatore, blasfemo. Ma creativo, coraggioso, estremo, assoluto. Inutile dire che la sua scomparsa ha lasciato un vuoto fragoroso. E una scia di polemiche: perché, come il solito, finché vivi i geni sono detestabili, ma, una volta morti, tutti si appropriano della loro memoria. Così, la nascita di una Fondazione che porta il suo nome e ha l’ambizione di accaparrarsi la sua eredità (pare non soltanto quella artistica) è fortemente avversata dalla sua ultima compagna, memore della diffidenza (se non dell’ostilità) che in vita lo circondava.
Le solite miserie della nostra società: asfittica, omologata e per giunta filistea. Gli artisti non hanno alcun peso: non si parla più né d’arte né di cultura. E gli intellettuali sono scomparsi dalla circolazione. Oppure si limitano ad apparire in televisione e a discutere di calcio.