Se anche i bambini hanno sentito parlare almeno una volta dei “Miti di Chtulhu”, di quest’altra mitologia, ad oggi, non è concesso nemmeno il ricordo di un nome tradotto in italiano, visto che in italiano non è disponibile praticamente nulla (se non qualche vecchia edizione che solo i più fortunati potranno rintracciare su qualche bancarella di libri usati). Faremo pertanto riferimento alla terminologia originale inglese, che ci suggerisce, come appare evidente dall’etichetta che ho assegnato (là in alto) a questa serie di articoli, di usare il nome di “Yellow Mythos”. Ma perché il giallo? Credo sia quasi superfluo sottolinearlo: giallo è il colore che, come vedremo, appare più di frequente in questa mitologia. Abbiamo già citato nel post introduttivo un “King in Yellow”, ricordate? Presto incontreremo anche una “Yellow Mask” e un “Yellow Book”…. ma diamo tempo al tempo. L’argomento è talmente vasto! Non è per nulla semplice rimanere entro gli stretti paletti che ci si è posti inizialmente e che, in questo caso, sono quelli che racchiudono quel breve racconto noto con il titolo di “Un cittadino di Carcosa”.La frase riportata in apertura è attribuita a Hali, uno sciamano leggendario, tanto leggendario quanto il libro da cui essa è tratta. La suggestione di questa citazione è tale che non si possono non collegare simili parole con la fine fatta dallo stesso Ambrose Bierce, fine che assomiglia in modo sconcertante a quanto lui stesso scritto: partito per il Messico nel 1913, a settantun anni, con il proposito di unirsi ai rivoluzionari di Pancho Villa, scomparve nel gorgo della Guerra Civile, inghiottito dal nulla.
Il protagonista del racconto si ritrova, in un’oscura notte d’estate, in “una pianura desolata e brulla, coperta da un’alta vegetazione secca che frusciava e fischiava nel vento autunnale, […] in alto si ergevano cupe rocce dalle strane forme, […] pochi alberi disseccati apparivano qui e lì come dei comandanti in quella malevola cospirazione di tacita attesa, […] su quella scena tetra gravava una volta di basse nuvole plumbee.”Osservando meglio, il protagonista nota tra l’erba “numerose pietre consumate dalle intemperie, palesemente tagliate con attrezzi umani […], spezzate, coperte dal muschio, mezze interrate.”Sono pietre tombali, ormai quasi irriconoscibili dall’enormità del tempo trascorso, quelle tra le quali si aggira il nostro protagonista chiedendosi come abbia potuto smarrirsi in quel luogo. Tutto quello di cui si ricorda è che si trovava a letto, prostrato dalla febbre, mentre ora si ritrova palesemente ad una considerevole distanza dalla città dove abita, l’antica città di Carcosa.Nel suo vagabondare egli incontra un uomo, con una torcia in una mano e arco e frecce nell’altra, e quindi un gufo. “Buon straniero, sto male e mi sono perso. Indicami, ti prego, la strada per Carcosa!”. L’uomo non risponde, ma si mette ad “intonare un canto barbaro” e prosegue per la sua strada.
Il protagonista del racconto di trova quindi di fronte ad uno degli orrori più grandi: la consapevolezza della propria morte. Quella febbre, di cui egli conservava un vago ricordo, lo aveva evidentemente vinto e trasportato in quel luogo. Un ululare di lupi in lontananza ci congeda da colui che solo alla fine del racconto scopriamo chiamarsi Hoseib Alar Robardin, il quale ci fa pervenire il suo racconto attraverso la bocca di un medium. Un finale che, un secolo fa, quando fu scritto “Un cittadino di Carcosa”, era sicuramente molto originale. Originale ed interessante. Interessante al punto che, solo qualche anno dopo, Robert W. Chambers ne riprese la struttura per il suo racconto “The Demoiselle d’Ys” (del quale parleremo prossimamente). Nel secolo a venire letteratura e cinema abuseranno spesso dell’idea del fantasma inconsapevole della propria condizione: basti pensare ai celeberrimi successi hollywoodiani “The Sixt Sense” e “The Others”, solo per citare i primi due titoli che mi vengono in mente. Qualcuno tra i miei lettori riesce a citare qualche altro esempio, magari meno recente?
“Ed improvvisamente, allora, capii che quelle erano le rovine dell’antica e famosa città di Carcosa” è la frase che pone fine al racconto di Bierce. Davvero interessante come finale, non trovate? È praticamente una seconda rivelazione che viene subito dopo quella, ben più spiazzante, appena citata. È l’immagine di una Carcosa del futuro, quella che ci era stata mostrata, un’immagine delle rovine di Carcosa dopo la sua caduta.