Opera in cui la scena di apertura e quella di chiusura sono le medesime, e la narrazione si svolge attraverso una serie di flashback che a più riprese ci trascinano in una realtà che non vorremmo ricordare. Perché questo film è la fotografia di una epoca che rimarrà impressa nella memoria di molti.
Opera che facilmente ispira un parallelo con altro film che tratta di tossicodipendenza quale il geniale Trainspotting. Se in quest’ultimo il tema era trattato con i toni della commedia, offrendo talvolta situazioni estremamente divertenti forse per controbilanciare la tragicità del racconto e di scene forti come la morte per AIDS di uno dei ragazzi del gruppo, in Drugstore Cowboy, oltre ai comuni espedienti per riuscire a “farsi”, si sceglie una altra strada: grazie ad un grande, ma grande, Matt Dillon le atmosfere sono molto più cupe.
Storia del gruppo di amici di Dillon, composto da due coppie, che usa come escamotage per procurarsi droghe e medicine il rapinare farmacie ed ospedali. Tutto procede in modo lineare, finché un evento tragico porterà il protagonista a compiere un cammino interiore di redenzione e cambiamento, fino alla punizione/espiazione.
Le tinte sono forti, alcune scene dure e crude, la fotografia fredda, ma così deve essere. Questo film del 1989, scritto e diretto da Gus Van Sant, è tratto da un romanzo autobiografico di James Fogle, scritto mentre era in carcere. Proprio una delle frasi pronunciate da Bob/Matt Dillon all’inizio del film, riassume la visione dell’autore, e descrive con semplicità l’atmosfera che accompagna tutta la pellicola: « In fondo sapevo che non avremmo mai potuto vincere, il nostro era un gioco in perdita. Non potevamo vincere, anche nella migliore delle ipotesi ».
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