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Un corso di fotografia

Creato il 24 gennaio 2014 da Spaceoddity
Un corso di fotografia[Foto] Sto frequentando un corso di fotografia, ça va sans dire, di primo livello; credo che darò nuova vita alle macchine che uso. Come tutte le volte che mi metto a studiare qualcosa di nuovo o con più sistematicità, non lo faccio con la convinzione di poter dire qualcosa di mio, ma con l'intento di apprendere ad ascoltarmi meglio. Questo blog non è un medagliere, ma un quaderno di studio, viaggia all'insegna del provvisorio e dell'imperfetto. Potremmo quasi sintetizzare dicendo che lo porto avanti per capire perché io lo faccia - e lascio volentieri i suoi malintesi a chi non vuole capire.
Naturalmente, dato questo mio atteggiamento, comincia una fase analitica molto pedante e - per gli altri - senz'altro noiosissima, nella quale metto in discussione il modo in cui ho visto quell'arte, quella cosa fino al momento in cui mi metto all'opera davvero. Perciò sono molto contento del fatto che il mio corso sia cominciato con una discussione delle foto di un ideale portfolio con il quale ci siamo presentati. Ciò conferisce continuità a un interesse, consente di maturare scelte già operate e rifletterci su per trovare l'essenziale, ovvero quale sia il grado zero del nostro - in questo caso - fotografare, quale sia il nostro soggetto. Bisogna sempre capire cos'è che si voglia fotografare, di cosa si vada in cerca.
Perché, insomma, prendi la macchina fotografica e vai? Cosa cerchi? Cosa cerchi attraverso quel mezzo, come se non ce ne fossero altri e gli occhi non bastassero? Perché si cerca sempre qualcosa, il problema è individuarla, altrimenti non la si trova. Mi sono stupito, dunque, quando tra le tanto foto che ho portato, i maestri del corso hanno premiato (nei limiti del dilettantismo, ovvio!) uno scatto del tutto casuale che ero pure incerto se selezionare o meno. Il mio dubbio era semplice: la foto in sé funziona, ma non era intenzionale il fatto che nel punto di fuga ci fosse una sagoma in fuga. Non l'avevo previsto e sono certo che dopo lo scatto allora, a Berlino, mi sarò maledetto per quel verme che si era intrufolato nella mia visione geometrica.
Certo, era carino, ma non era quello che avevo voluto, non l'avevo progettato e non l'avrei saputo riprodurre. Da un punto di vista della pianificazione, quella foto era sbagliata: magari non per colpa mia, però rimaneva pur sempre l'ennesima opera incompiuta, da rifare. C'è voluto del tempo a convincermi che - in tutta la serie di fotografie realizzate - c'era anche questa, che era mia quanto le altre. E che non era colpa mia se era venuta meglio, ma un caso fortunato che mi aveva favorito. Tuttavia, poi ho capito una cosa: faticavo a sentire questa foto mia non tanto perché frutto degli eventi (e io ho passato moltissimo tempo al Monumento per l'Olocausto, il fato avrebbe pur dovuto arridermi prima o poi!), bensì perché non l'avevo scelta tra le altre, non l'avevo indicata dicendo: "Ecco, questo esprime esattamente qualcosa di nuovo!"
Non, magari, uno shock per l'umanità, ovvio, non quello a cui pensavo quel momento, ma la cosa grave, diciamolo così, è che questa era esattamente una sensazione che provo ogni volta che mi reco in quel posto sin dalla prima volta che l'ho scoperto (e non avevo la macchina fotografica con me, ma l'avrei tanto voluto raccontare). Non mi sono riconosciuto in una fotografia che mi racconta moltissimo (e ora lasciamo pure perdere che sia "la migliore" del mio portfolio, questo non importa): non stavo perdendo solo una fotografia, ma una narrazione.
Un corso di fotografiaChiunque ci sia stato riconoscerebbe subito il Memoriale in questa foto, e tuttavia so che questo scatto non lo descrive, come era mia maldestra e presuntuosa intenzione: lo racconta. Qualcosa di più complesso e insieme più elementare. Così ho capito almeno una cosa: che a me non importa affatto dire le cose come stanno, far vedere lo sfondo della Porta di Brandeburgo o della Colonna della Vittoria per parlare di Berlino; capisco perfino il mio odio sviscerato per quell'ammasso di ferraglia inutile che è la Torre Eiffel a Parigi, perché per me Parigi è un'altra cosa. Io non voglio uno sfondo, non sono un paparazzo, un fotoillustratore o un etnofotografo: voglio provare a portare in scena delle situazioni, che testimonino un pezzo di vita particolare e poco male se altri si aspettano una realtà più codificata (e creduta nello stesso tempo più importante o universale). E mi importa poco, lavorandoci su, che questa mia intenzione sia parecchio più maldestra e presuntuosa dell'altra. Non è di essere un artista che si tratta qua, ma di coltivarsi.
Ovvero rinunciare alle foto che testimonino dove hai soggiornato, per provare a scattare il momento in cui sei stato un altro. Sperimentandosi, superandosi. Forse, se la foto non funziona, se il racconto non funziona, se quella parola non è esatta, è perché non ti sei rinnovato. Sulla tecnica, cominciamo a lavorare da ora.

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