Ciò che avviene è identico a ciò che non avviene, ciò che scartiamo o ignoriamo identico a ciò che accettiamo o afferriamo, ciò che sperimentiamo identico a ciò che non proviamo, tuttavia la vita passa e passiamo la vita a scegliere a rifiutare a selezionare, a tracciare una linea che separi quelle cose che sono identiche e faccia della nostra una storia unica da ricordare e da raccontare. Impieghiamo tutta la nostra intelligenza e i nostri sensi e le nostre ansie al fine di discernere ciò che sarà uniformato, o che lo è già, e per questo siamo pieni di rimpianti e di occasioni perdute, di conferme e riaffermazioni e di occasioni sfruttate, quando l'unica certezza è che nulla si afferma e tutto si perde. O forse non c'è mai stato niente.
A esprimersi in questi termini è Juan un traduttore, uno sposino per il quale le cose trascolorano da una lingua all'altra. Sono sempre parole, perché i silenzi sono intraducibili. L'uomo vive con la sua bella Luisa un inizio piuttosto turbolento di matrimonio, dove i malesseri, i sinistri presentimenti, le parole e i fatti taciuti, le allusioni, i segreti si susseguono, senza che lui - e nessuno, in verità - ci possa far nulla. Un cuore così bianco (1992,, tit. or. Corazón tan blanco) di Javier Marías è un romanzo sull'arte del raccontare, un'opera intensa e ricercata, intessuta sul rapporto di complicità delittuosa che lega Macbeth alla moglie, sul misfatto incapace di incidersi su quel cuore così bianco che campeggia nella tragedia di Shakespeare.
La scrittura di Javier Marías è musicale, sinfonica: non mi riferisco alla sonorità delle parole che non posso apprezzare (non conosco lo spagnolo), bensì all'ordito fatto di motivi ricorrenti, di grovigli di parole che si rincorrono e che si ripresentano, pur senza avere, quasi mai, l'invadenza di un ritornello. Sembra, piuttosto, un tema con variazioni, dove sono poche battute a consegnare alla memoria degli ascoltatori più attenti il senso di un'architettura, l'identità di un motivo, il telaio di una storia non narrabile. Sfido chiunque, infatti, a raccontare la trama di Un cuore così bianco o ancor più, se si vuole, a difendere l'importanza stessa di una trama in quel suo particolare viluppo di parole consegnateci dall'unica voce di Juan.
Ho scoperto (ma solo dopo averlo terminato) che Corazón tan blanco parlava del segreto e della sua possibile convenienza, della persuasione e dell'istigazione, del matrimonio, della responsabilità di chi ha saputo, dell'impossibilità di sapere e dell'impossibilità di ignorare, del sospetto, del parlare e del tacere.
Così si esprime il suo autore a proposito di Un cuore tanto bianco. Anche ammettendo il nuovo filtro, la voce canzonatoria di un dispetto ulteriore, è vero che nel romanzo di Javier Marías sia più facile rintracciare temi che raccontare una storia. Le vicende di Juan e Luisa sono diluite da correnti e gorghi che ingoiano l'attenzione su vicende dimenticate oppure no, comunque periferiche, salvo poi costringerci alla resa rispetto alla loro importanza primaria. Un cuore così bianco, come spesso accade con Marías, è centrifugo, a volte perfino dispersivo: i fatti vengono quasi sepolti dalla volontà di conoscerli o da quella di celarsi o, più che altro, dalle parole per dirli.
Certo, lo stile è spesso felice, ma le intuizioni più belle si racchiudono in frasi, in immagini tremendamente precise e suggestive, non ci sono qui le sequenze magnifiche di Domani nella battaglia pensa a me: i dialoghi sono meno intensi e le situazioni perdono il nerbo che forse l'autore vorrebbe conferire loro. Non voglio dire che Un cuore così bianco sia un romanzo prevedibile, non lo è, né è banale; ciò che mi ha colpito - e un po' disturbato - è, semmai, che l'ossessiva ricerca di rimandi, il desiderio di esplicitare le connessioni interne, quasi a voler guidare la memoria del lettore, appesantiscono un po' il rapporto che si stringe con quest'opera. Un cuore così bianco di Javier Marías smette quasi subito di essere una sorpresa - o una conferma - per presentarsi come una sospirosa ed esangue, ma esattissima, intelaiatura.
Meritevole, insomma, e comunicativo: ma non fulminante.