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Un disastro sociale: povertà, emarginazione e il tormento del fallimento

Creato il 17 ottobre 2012 da Tabulerase

Un disastro sociale: povertà, emarginazione e il tormento del fallimentoIl suicidio del giovane spazzino palermitano, nella prima settimana di ottobre, è l’ennesima testimonianza del disastro sociale prodotto dalla classe dirigente del nostro Paese, drammaticamente incolta per definire un progetto complessivo di crescita generale e ossessivamente guidata da una tensione compulsiva alla perpetuazione di privilegi e prerogative perseguite troppo spesso mediante relazioni pericolose e comportamenti criminali.

La vicenda in questione merita di essere raccontata perché svela un contesto sociale in cui povertà ed esclusione hanno raggiunto dimensioni tali da erodere anche la storica riservatezza ed il proverbiale orgoglio tipico del popolo siciliano che li ha sempre tenuti pudicamente nascosti. Massimo, padre di Martina e Niccolò, di 12 e 14 anni, era un dipendente dell’Amia Essemme (società satellite dell’Azienda municipale di igiene ambientale) che, a causa della messa in liquidazione della società e dello spettro della cassa integrazione temeva di essere licenziato. Da anni non aveva più una casa. Viveva con la sua famiglia passando da una sistemazione precaria all’altra, da edifici occupati abusivamente a tende montate dinanzi al Palazzo di Città. L’ultima sistemazione è stata quella in cui si è consumata la tragedia: una locanda ai margini del centro storico della città, in via Archirafi. È lì che l’hanno trovato impiccato i bambini della sua e di altre famiglie che vivono nelle stesse condizioni di disagio.

Quello di Massimo, purtroppo, non è un caso isolato. Sono tanti i padri che in questo Paese, ogni giorno, tormentati dall’idea del fallimento e dalla vergogna di non riuscire a garantire condizioni dignitose alla propria famiglia, si abbandonano a gesti estremi che troppo spesso raccontano di tragedie familiari legate all’impoverimento e all’emarginazione. In effetti, secondo gli ultimi dati diffusi da EUROSTAT (e confermati dall’ISTAT nel 2012) sono 14,7 milioni gli italiani a rischio di povertà e di esclusione sociale, ossia il 24,5% della popolazione, e il quadro si fa a tinte sempre più fosche se si pensa che, secondo gli indicatori utilizzati, il nostro Paese rivela condizioni peggiori rispetto alla media europea (oltre 115 milioni di cittadini, ossia il 24,5% della popolazione UE). Invece, il 18,2% degli italiani, nonostante l’assistenza pubblica, resta al di sotto della soglia di povertà e il 6,9% vive “in condizioni di severe privazioni materiali”. Infine, il quadro è drammaticamente turbato per effetto della categoria a maggiore rischio, ossia quella degli under18, con valori di esclusione sociale molto vicini al 30%, a fronte di una media europea pari al 26,9%.

Secondo l’esame trimestrale della Commissione Europea sull’occupazione, relativa al secondo semestre 2012, la situazione resta ancora molto grave. Infatti, a causa della gravissima crisi recessiva che l’UE sta vivendo, la situazione finanziaria delle famiglie europee sta peggiorando progressivamente, così come del resto la situazione relativa alla povertà infantile. Una vera “emergenza sociale”, secondo il Commissario europeo per l’Occupazione, gli affari sociali e l’inclusione, László Andor, rispetto alla quale la mancanza di lavoro configura la variabile principale: 23,5 milioni sono i cittadini europei disoccupati con un incremento dell’11,6% rispetto al marzo 2011; la disoccupazione giovanile ha raggiunto il livello record del 22,5%, ampliando il rischio di povertà e di inattività che stanno alla base dell’esclusione sociale tipica dei NEET (not in education, employment or training). A ciò vanno aggiunti due ulteriori problemi emergenziali interconnessi:
1. la povertà infantile che – legata alla crescente disoccupazione ed alla minore disponibilità di reddito delle famiglie – secondo la Commissione ha raggiunto livelli davvero inquietanti, pari o superiori al 20% in Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo, l’Italia, la Polonia, la Lituania, il Lussemburgo;
2. la flessione della crescita in Paesi come il Regno Unito e l’Italia la cui situazione diventa sempre più preoccupante; basti pensare che il FMI, dalla sua Assemblea annuale di Tokyo, in cui in questi giorni sta presentando il Fiscal monitor, ha corretto la previsione del PIL italiano per l’anno in corso, da un iniziale -1,9% a un ben peggiore -2,7%, con la previsione di un ulteriore calo dello 0,7% nel 2013, un aumento del deficit del 2,7% del PIL nel 2012 e dell’1,8% nel 2013 e una crescita del debito dal 126,3% del PIL per il 2012 al 127,8% del 2013).

Nel maggio del 2012, Ulrich Beck e Daniel Cohn-Bendit hanno promosso un manifesto dal titolo “L’Europa siamo noi. È il momento di ricostruirla” pubblicato sulle pagine di quotidiani europei come Die Zeit, Le Monde, El Pais, The Guardian, la Repubblica, con il quale, da un lato, si sottolinea l’inadeguatezza dell’élite al potere e dei tecnocrati a governare la gravissima crisi economica in atto e, dall’altro, si esorta la società civile ad agire in nome di un progetto europeo che quelle élite stanno tradendo e distruggendo. Purtroppo, ad oggi, nonostante l’adesione di numerosi intellettuali europei, l’appello pare essere caduto nel vuoto, mentre la situazione socio-economica dei Paesi dell’eurozona – e soprattutto di Paesi come la Grecia, l’Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia – tende a peggiorare.

Il secolo scorso ha rappresentato un’epoca di grandi conquiste sul piano delle sicurezze sociali grazie al Welfare state che in Europa ha sancito l’affermazione dei diritti sociali, ispirati dai principi di uguaglianza e di promozione della crescita sociale. Ciò ha generato una situazione complessiva di sicurezza sociale testimoniata in Italia da una riduzione progressiva delle diverse forme di disuguaglianza sociale, da un crescente benessere economico e da una maggiore disponibilità universale di servizi come la sanità pubblica (1978), la scuola media unica dell’obbligo (1962), la liberalizzazione degli accessi universitari (1969), solo per fare alcuni esempi importanti. Le società occidentali contemporanee postmoderne hanno, quindi, prodotto un progressivo miglioramento generalizzato delle condizioni di vita delle persone avviando processi di crescita individuale e collettiva mossi dalla tensione ideale del benessere, della felicità.

Come ha sostenuto Bauman, nel 2006, in Liquid fear, al di là delle diverse definizioni possibili, il concetto di felicità racchiude in sé la libertà dal disagio e dai rischi che possono compromettere lo stesso benessere. Ma per effetto delle politiche liberiste avviate negli anni ’80 da Ronald Reagan e da Margareth Tatcher, oggi quella “paura liquida” da condizione psichica è mutata in una realtà di fatto e così la recessione globale – generata dal criminale capitalismo finanziario, di cui furono protagonisti CEO come Kenneth Lay della Enron e Madoff della Bernard Madoff Investment Securities, già a partire dal secolo scorso – ha fatto la sua comparsa sulla scena mondiale determinando una condizione di insostenibilità del sistema che per far fronte all’emergenza sta sacrificando lo Stato sociale.

È evidente che la crisi economico-finanziaria globale, ed europea in particolar modo, con le sue inevitabili conseguenze recessive, deve spingere ad una riflessione che va ricollegata ai temi dell’equità e della giustizia sociale nel tentativo di ripensare meccanismi e dinamiche che hanno presieduto al funzionamento dell’economia di mercato. Nello specifico, come ha sostenuto il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, in un articolo apparso sulle pagine del New York Times nel maggio 2012, dal titolo The crisis of european democracy, sembrerebbe opportuno, concentrarsi seriamente su un dibattito che recuperi l’idea di smithiana memoria secondo cui l’economia può garantire la crescita solo creando due condizioni di fondo, distinte, ma indivisibili: garanzia di redditi e sussistenza ai cittadini e garanzia a Stati e comunità di sufficienti risorse per i servizi pubblici. In entrambi i casi si tratta di obiettivi che pongono al centro dell’azione politica le persone. Queste, infatti, secondo l’economista dello sviluppo Jeffrey Sachs rappresentano, come ha argomentato negli articoli The economics of happiness del 2011 e Aid works del 2012, il punto di partenza nella direzione di una logica economica consapevole, fondata sui principi dell’equità redistributiva, sia intergenerazionale (verso il futuro) che intragenerazionale, della sostenibilità ambientale e della cooperazione internazionale nel contesto della quale i governi hanno importanti responsabilità che dovrebbero tradursi nella produzione di beni pubblici collettivi.

Tuttavia, come ha sottolineato il Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz in articoli come A price of inequality o A breakthrough opportunity for global health del 2012, nonostante il dibattito internazionale, che vede coinvolte istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le Nazioni Unite e molti Paesi occidentali, abbia riconosciuto all’idea di un benessere complessivamente inteso il criterio fondamentale di una crescita equa e sostenibile, tale consapevolezza stenta a farsi spazio all’interno delle dinamiche dei sistemi di decision making nazionali e internazionali e a tradursi in politiche pubbliche finalizzate alla promozione delle potenzialità e delle abilità per un rinnovato concetto di dignità e sviluppo umano.

Proprio da questo presupposto muove l’approccio di Martha Nussbaum che da anni è impegnata nell’affermazione di un nuovo paradigma di giustizia sociale che scardina l’idea che governare un paese significhi impegnarsi eminentemente sul versante dello sviluppo economico. Si tratta del cosiddetto Capability approach che, sulla scorta di una visione aristotelica e marxista, teorizza le capacità personali come elementi costitutivi dello sviluppo economico e, dunque, di una crescita che non esclude nessuno. L’idea di fondo è che i diversi sistemi politici per assumere la forma di regimi democratici capaci di assicurare la massima affermazione dei diritti di cittadinanza debbono garantire a tutti le cosiddette central capabilities, ossia quelle capacità fondamentali che contribuiscono a definire la vita dei cittadini in termini di pluralismo e di qualità. Serve a ben poco la maturità raggiunta nell’ambito del dibattito internazionale sul tema e quella certa tensione diffusa tra gli economisti di nuova generazione sensibile alle istanze di sostenibilità della cosiddetta Human economy. Ma soprattutto appare troppo debole rispetto ad una classe politica che, invece, è fin troppo attenta alle ragioni di un capitalismo finanziario che ha cancellato le persone dalle proprie agende decisionali.

Tornando al nostro Paese, a parte gli eventi drammatici come quello raccontato all’inizio, anche l’incremento dei furti al supermercato restituisce l’immagine tragica di un Paese precario che – quasi riemerso drammaticamente dall’immaginario cinematografico del Neorealismo – registra una crescita esponenziale delle disuguaglianze determinate da nuove forme di indigenza e dall’acuirsi di povertà preesistenti. Infatti, secondo il Ministero degli Interni i reati “predatori” hanno significativamente influito sull’incremento dei reati denunciati tra il 2010 ed il 2011 determinando un incremento dei reati denunciati del 5,4%. E così proprio i “furti della dispensa”, fatti di carne, frutta, formaggi (non certo di fondi pubblici o tangenti), consumati sul posto, e che attraversano l’intera penisola da Torino a Ferrara, da Reggio Emilia a Pavia, da Genova a Salerno, trovano la più disarmante delle giustificazioni: “avevamo fame”.


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