“Non ho alcun rimpianto per aver lasciato l’Italia, anzi suggerisco a molti di provare a studiare o lavorare all’estero per vari anni, aprendosi alla diversità di culture organizzative. Professionalmente non trovo grande interesse a tornare nella Penisola, un Paese che ha difficoltà a valorizzare i giovani, spesso chiuso in sè stesso“: si presenta così Emanuele Santi, 37enne economista al lavoro per la Banca Africana di Sviluppo, in Costa D’Avorio.
La storia di Emanuele è una storia -almeno inizialmente- come molte altre: la svolta arriva a 16 anni, quando la diagnosi di una malattia gli impedisce di proseguire nel sogno di una carriera nel basket. I genitori, per consolarlo dalla delusione, lo inviano un anno negli Stati Uniti a studiare. Da allora la sua vita cambia, per sempre.
All’università Emanuele sceglie Scienze Politiche, che “condisce” con un Erasmus a Vienna e un Master post-laurea a Bruges. La traiettoria internazionale è ormai segnata: per lui si aprono le porte della Banca Mondiale a Washington.
“A Washington imparai a credere in me. Diversamente da un’Italia dove il rispetto si ottiene con il capello bianco, mi trovai in un mondo dove l’età contava poco. Le idee e la capacità di comunicarle erano tutto“, riflette lui a distanza di anni.
A fine 2007, dopo una carriera internazionale condita da un dottorato a Trieste in Politiche dello Sviluppo, Emanuele approda a Tunisi, con la Banca Africana. Dal Nord Africa, si sposta successivamente in Costa D’Avorio, dove assume la responsabilità della Banca nell’Africa Occidentale, nella posizione di “chief economist”. L’ultima tappa lo vede protagonista ad Abidjan.
“L’Africa ti sbatte la sua realtà in faccia. Ti interpella, ti obbliga a dare risposta alle sue domande, ti regala ogni giorno la passione di migliorari e misurarti continuamente, per poter meglio lottare contro le ingiustizie del Continente“, conclude Emanuele.
Ospite della puntata è Caterina Valitutti, ex-compagna di università di Emanuele, nonchè professionista nel settore dello sviluppo e dell’assistenza umanitaria. Per lei anni di esperienze nella cooperazione mondiale, tra Messico, Niger e Sud Sudan. Poi il ritorno in Italia, dove -annota lei- “il mio curriculum internazionale è persino difficile da comprendere, e da apprezzare“. Non resta che emigrare un’altra volta, per poter lavorare al meglio? E’ così che l’Italia premia i giovani che optano per il Controesodo?
Nella rubrica “Expats” prima puntata dell’anno con le vostre lettere e riflessioni a “Giovani Talenti”: oggi ospitiamo la missiva del nostro ascoltatore Taro, che dipinge l’Italia come una “società antropologicamente tribale”, dove una salutare competizione per un posto di lavoro è talmente passata di moda, che abbiamo persino dimenticato come si scrive un semplice curriculum.
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La discussione di gennaio: “Quanto considerate mediocre, anziana, poco istruita e legata a meccanismi prettamente relazionali e famigliari l’attuale classe dirigente italiana? E quanta parte di responsabilità ha -secondo voi- questa mediocrità nella fuga dei nostri migliori talenti all’estero? E’ giunto il momento di cambiare il modello di classe dirigente?”
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