Nel villaggio di Halwapur, in Pakistan, vive una giovane donna di nome Jiya. Orfana sin da piccola, Jiya è stata adottata da un’amorevole coppia del luogo e ora è l’insegnante della scuola elementare del villaggio. Però il suo padre adottivo non si è limitato a crescerla e ad amarla, le ha insegnato anche la nobile arte del Takht Kabbadi, una micidiale forma di combattimento che impiega libri, penne e complesse acrobazie. Perciò quando due farabutti decidono di chiudere la scuola femminile, Jiya interviene e si trasforma in Burka Avanger, l’eroina che combatte per difendere il bene e i diritti dei più deboli, e il cui volto è coperto da un… burqa.
Burka Avanger è un serie di cartoni animati trasmessi gratuitamente su YouTube, in urdu e con sottotitoli in inglese. Si tratta di una creazione ad opera di Haroon, cantante anglo-pakistano molto popolare in Asia e tra le comunità indo-pakistane di Europa e America, e il primo episodio è comparso di recente in rete. È l’ennesima dimostrazione di come la cultura dei paesi musulmani, continuamente frustrata da imposizioni integraliste e inferenze smodate dei poteri occidentali, si stia trasformando gradatamente, spesso attraverso produzioni davvero insolite e originali.
L’eroina di questi cartoni animati combatte per il bene di tutti, ma al centro dei suoi sforzi si ritrova invariabilmente il diritto allo studio delle donne. Quando nel primo episodio compare il malvagio Baba Bandook, assoldato da un affarista senza scrupoli per far chiudere la scuola femminile, è difficile non intravedere i caratteri del fondamentalismo religioso più deplorevole, sia nella caratterizzazione visiva che in quella morale. “Cosa se ne fanno le donne di una scuola? Pensano forse di trasformarsi in un computer? Le donne dovrebbero starsene a casa a pulire, lavare e cucinare!”
E quando l’annunciatrice del telegiornale locale dà la notizia della chiusura della scuola, il suo sguardo disperato si rivolge agli spettatori – cioè a noi – mentre invoca l’aiuto di qualcuno: “Perché un diritto fondamentale come l’educazione è stato tolto a queste ragazze? Dovranno forse smettere anche di mangiare e di respirare?”
E al culmine di questi scontri culturali ecco la maschera dell’eroina che difende il diritto all’emancipazione femminile: un burka, simbolo di identità culturale ma anche dell’oppressione a cui le donne sono state costrette per secoli, e in alcuni casi lo sono ancora. Sullo sfondo il Pakistan, una terra ricca di arte e cultura millenarie, ma che convive tra dinamiche continuamente avverse, tra spinte verso la modernità o verso le tradizioni. Un paese che sarebbe criminoso relegare all’immagine delle donne velate o degli attacchi dei talebani, ma che deve ancora affrontare numerose prove per superare il giogo di imposizioni culturali spesso motivate da schemi di controllo e di potere.
Il burqa è un abito che copre completamente il corpo femminile, lasciando solo una retina all’altezza degli occhi da cui vedere. Non viene richiesto espressamente dal Corano, ma è stato introdotto per la prima volta in Afghanistan all’inizio del XX secolo da Habibullah Kalakānī che lo impose alle donne del suo harem. Inizialmente un capo per donne facoltose che le proteggeva dagli sguardi del popolo, è stato imposto a norma di legge durante il regime teocratico dei talebani.
In Pakistan la legge non obbliga le donne a indossare il burqa, ma in alcune aree meno progredite sono le famiglie a imporlo alle figlie femmine. Personalmente ho sempre considerato sia il velo che il burqa poco più che un’imposizione maschilista, ma viaggiando e confrontandomi con molte persone ho scoperto che a volte dietro quel pezzo di stoffa si nasconde molto di più che una legge antiquata. Nel romanzo “A Thousand Splendid Suns” di Khaled Hosseini, una delle protagoniste confessa di esser lieta di indossare il burqa, dietro il quale si sente protetta e al sicuro.
Ecco, in definitiva io non vorrei bandire il burqa – o qualunque altro abito tradizionale – ma auguro semplicemente a tutte le donne musulmane di vivere in una società in cui né la paura né la violenza imponga loro un abito, ma che sia la loro sensibilità personale e collettiva a stabilire come mostrarsi al mondo. E a dire il vero un augurio simile lo vorrei fare anche alle donne occidentali.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
More Posts