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E io torno a Bergman. Per me, che pure sono ben lungi dal conoscerlo tutto, Ingmar Bergman è il regista dell'incanto, dello stupore, del meraviglioso: la contemplazione dello strano, del bizzarro che adoro in Fanny & Alexander o, per ragioni diverse, ne Il volto.
Ma Un'estate d'amore (1951) sa coniugare il difforme con la più assoluta grazia. Per quanto sia, in effetti, la storia di un autunno infelice, questo film presenta la più straordinaria forma di gioia naturale che io ricordi: il racconto della felicità tra Marie ed Henrik ha del miracoloso, a dispetto delle professioni di ateismo di cui il film è venato.
Volti sfigurati dall'età non più in fiore si truccano e si guardano alle prese con ciò che hanno perduto un po' per accidenti e un po' per stupidità: i fantasmi non spaventano per la loro carica trascendentale, ma per ciò che ciascuno di questi uomini e donne diventa, sono una proiezione di se stessi nel mondo, dopo la gioiosa danza dell'amore e dell'incontro esclusivo, assoluto.
Un'estate d'amore è la felicità ricordata: sia per ragioni tematiche sia per ragioni spirituali, un magnifico assaggio di ciò che sei anni dopo sarebbe stato Il posto delle fragole. Senza godere della carica introspettiva che esplode nel più tardo capolavoro, questo film di Ingmar Bergman ha l'energia, la forza della ricerca e una maturità stilistica, in special modo nella fotografia e nel tocco garbato e implacabile della sceneggiatura, che supera di gran lunga la dimensione del promo.
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