Un fidanzato per mia moglie, remake della pellicola argentina Un novio para mi mujer (Juan Taratuto, 2008) si è rivelato alla visione un film dall’andamento poco omogeneo, pur apprezzandone il nobile intento volto ad assecondare una visualizzazione del reale soffusa di una garbata ironia. Per quanto sia evidente anche una certa eleganza nella messa in scena, mantenendo una gradita distanza dal solito repertorio di frizzi e lazzi in offerta discount, regia (Davide Marengo) e sceneggiatura (Francesco Piccolo e lo stesso Marengo, con la collaborazione di Dino Gentili) appaiono entrambe scarsamente incisive, incapaci a conferire un minimo di nerbo narrativo che non sia il consueto adagiarsi sulle gesta di interpreti dal sicuro richiamo, già collaudate preventivamente sul piccolo schermo. Camilla (Geppi Cucciari), speaker radiofonica, si trasferisce dalla Sardegna in quel di Milano dopo il matrimonio con Simone (Paolo Kessisoglu), venditore d’auto d’epoca nel capoluogo lombardo. Una figura femminile dal carattere deciso, determinato, dalla notevole ironia ed autoironia, caratteristiche che però man mano andranno ad affievolirsi, soprattutto per l’insensibilità dell’immaturo coniuge.
Paolo Kessisoglu e Geppi Cucciari
Per l’amebico Simone, infatti, tutto è dato per scontato nell’incedere immutabile del vivere quotidiano: incapace di comprendere e, conseguentemente, ad andare incontro all’inevitabile mutamento d’umore della moglie, la quale fatica ad inserirsi in una realtà diversa da quella di provenienza, riesce a prospettare come unico rimedio una separazione, consigliato al riguardo dal suo datore di lavoro Carlo (Dino Abbrescia) e dagli amici Gianluca ed Ernesto (Ale e Franz), coppia omosessuale, da mettere in atto però, ulteriore debolezza caratteriale, tramite interposta persona. Ingaggerà infatti un playboy ormai in disarmo, puro residuato degli anni ’80, Falco (Luca Bizzarri), col compito di adoperarsi nel corteggiare la consorte, inducendola al tradimento, anche se il piano non andrà proprio come prospettato, con più di una sorpresa dietro l’angolo.
Tutto ciò, insieme ad altre altalenanti vicende che interverranno nel corso della narrazione, viene però reso sulla scena senza alcuna sfumatura idonea a conferire tanto la struttura propria di un valido racconto, quanto la dimensione di personaggio ai protagonisti, fermi nel prospetto monodimensionale di macchiette pronto uso.
Luca Bizzarri e Cucciari
Si distacca leggermente dal suddetto contesto l’interpretazione offerta da Bizzarri, che lascia intravedere dei toni soffusi e malinconici, anche se la migliore in campo, a mio avviso, è senza dubbio la Cucciari, potenzialmente idonea a proporre qualcosa di veramente nuovo, basta considerare come mette in ombra i più rodati, cinematograficamente parlando, Luca e Paolo, o gli altri maschietti. Sue d’altronde le migliori battute, espresse con la consueta naturalezza e savoir faire dal gusto pungente (“Non sei in maschera?” le domanda Carlo accogliendola alla sua festa di compleanno, “No, l’ho interiorizzata”), così come la capacità di conferire con la sua presenza, una volta messo da parte il broncio d’ordinanza e lasciatasi andare ad autoironiche pose da vamp (la scena in cui invita il marito bietolone ad un’improvvisata danza sulle note di Ma che freddo fa di Nada), un minimo di anima al film, altrimenti ripiegato su se stesso nella mancata capacità di coinvolgere coralmente gli altri personaggi, persi in una statica ed ordinaria secondarietà, fra cliché e vuote riproposizioni di situazioni proprie delle più stantie barzellette (l’uomo cacciatore e filibustiere di Abbrescia, mossette ed isterismi di prammatica per Ale e Franz).
Cucciari e Bizzarri
Peccato, perché il film offre una discreta scioltezza, a parte qualche momento di stasi nei vari passaggi temporali (la storia viene narrata da Camilla e Simone ad un’invisibile psicoterapeuta, cui dà voce Daria Bignardi), oltre ad una certa cura in molti particolari (la fotografia di Vittorio Omodei Zorini, ad esempio, che ritrae una Milano certo insolita riguardo la scelta delle location).
La mancata conciliazione fra toni ironici e quelli più riflessivi lascia l’amaro in bocca già a metà percorso e ancor di più una volta giunti all’intuibile finale, sin troppo diluito, permeato da una sensazione di accumulo che poteva essere certo evitata. Una classica occasione mancata, quindi, espressione di un’ancor più classica mancanza d’idee nell’ incapacità di prendere inedito spunto da quanto già offerto da altri, optando per una costruzione prefabbricata in luogo di un’opportuna caratterizzazione, il cui pregio essenziale, oltre alle qualità già descritte, rimane il rendere intuibili le potenzialità, parzialmente inespresse, tanto di una valida interprete quanto di un regista forse troppo presto adagiatosi in uno stile prettamente di mestiere, dalla consistenza più televisiva che cinematografica.
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