Un filo di voce

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

Molti lettori accedono a questo blog attraverso i loro Iphone e altri aggeggetti di connettività smart, unico vero status symbol di oggi. Così, come una fantascientifica macchina del tempo, si viaggia attraverso gli Anni ’80 punzecchiando con le dita i touch screen a cristalli liquidi, si ritrovano vecchi ricordi da cantina o si imparano mode di un passato che non si è vissuto grazie alle strabilianti possibilità della telefonia contemporanea.

Eppure, appena venticinque anni fa, il solo riuscire a fare una banalissima chiamata da un marciapiede aveva già un retrogusto di esperienza miracolosa. Trovare un barista disposto a cambiarti mille lire con cinque gettoni, aver la botta di culo di imbattersi in una cabina libera e, se Dio era dalla tua parte, gioire perché l’apparecchio pubblico non era scassato, trasformava una banale giornata in un momento in cui sentivi che la vita poteva essere meravigliosa.

I primi test su un pubblico-campione di “Tutto Matto – C’erano una volta gli Anni ‘80” hanno portato alla luce un gap generazionale spaventoso tra le persone nate fino al 1978, e quelle più giovani, cresciute nell’epoca dei cellulari e del contatto immediato. Queste ultime, infatti, guardando le prove dello spettacolo, hanno strabuzzato gli occhi incredule al momento della scena in cui Sebastiano ed Alice si danno un appuntamento per strada ma poi, non trovandosi, iniziano una vera e propria odissea attorno a una cabina della SIP, cercando un modo per chiarire l’equivoco e incontrarsi.

I ragazzi cosiddetti digital-native, sebbene abbiano magari 10-12 anni di meno di quelli della mia generazione, neanche riescono a immaginarlo, un mondo senza Vodafone e tecnologia wireless, e -guardando noi vecchiotti con gli occhi di chi si fa un giro tra le teche del museo preistorico ed osserva i dinosauri – ci chiedendo straniti se davvero la vita fosse possibile anche prima dell’avvento degli sms.

Eppure - incredibile ma vero - è proprio così: si viveva comunque anche senza Nokia, applicazioni Apple e collegamento costante con un migliaio di amici linkati su Twitter.
Usando un paradosso perfetto per descrivere quel tempo, si potrebbe dire che tutto era parecchio più complicato ma che, nel suo insieme di ostacoli, la vita era decisamente più semplice.
L’esperienza più avveniristica che si potesse immaginare di sperimentare con un telefono era parlare in teleselezione a costo ridotto dopo le 18.30, come faceva la ragazzina innamorata dello spot-tormentone che, con la cornetta appoggiata al cuore, ripeteva ossessivamente al suo fidanzato distante «Ma allora mi ami? Ma quanto mi ami? E mi pensi? Ma quanto mi pensi?»

Insomma le compagnie telefoniche – anzi, LA compagnia telefonica, visto che eravamo ancora in anni di monopolio assoluto – non servivano a mandarsi foto, video, messaggi di chat o a prendere un caffè virtuale stando insieme senza frequentarsi. Non c’era wireless, allora, ma solo un filo, un lunghissimo, infinito filo su cui non poteva scorrere nient’altro se non le parole pronunciate davvero.
Non a caso, un altro vecchio, storico, indimenticabile slogan SIP, nel tentativo di dare un retrogusto emotivo e melò alle bollette da pagare ogni mese, recitava romanticamente così: “Il telefono: la tua voce”.


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