di Michele Marsonet. Da parecchio tempo viene sottolineata, da singoli commentatori e anche da personaggi pubblici, l’esigenza di un fronte comune tra nazioni che intendono contrastare la diffusione del terrorismo. Sembra, questa, l’unica opzione in grado di combattere con efficacia un fenomeno in piena espansione, di cui il massacro di Parigi rappresenta soltanto l’ultimo segno.
Scrivo “ultimo segno” perché, come molti hanno con ragione notato, restiamo profondamente impressionati quando a essere colpita è una capitale europea o una metropoli americana. L’impressione è – purtroppo – minore se una bambina di 10 anni è utilizzata come bomba umana per devastare un mercato in Nigeria, o se i passeggeri di un autobus sono massacrati al confine tra Somalia e Kenya soltanto perché non sanno leggere il Corano.
Eppure orrore e pietà dovrebbero essere uguali in ogni caso. Le povere vittime africane del terrorismo meritano le stesse lacrime di quelle europee e statunitensi. Non v’è alcun motivo di considerarle meno degne di rispetto poiché vivevano in aree del mondo considerate “periferiche”.
L’esigenza del fronte comune di cui parlavo poc’anzi, per quanto avvertita, incontra però ostacoli che a volte paiono insormontabili. Lo ha notato, con la consueta lucidità, Sergio Romano in un articolo sul “Corriere della Sera”.
L’ex ambasciatore cita Winston Churchill, il quale affermò che “se Hitler avesse invaso l’inferno, lui non avrebbe mancato di parlare gentilmente del diavolo alla Camera dei Comuni”. Questo per ribadire che quando si deve affrontare un avversario potente e senza scrupoli, non è opportuno fare gli schizzinosi nella ricerca di possibili alleati. Importante è conseguire il risultato, anche se i temporanei compagni di viaggio non ci sono per qualche motivo simpatici.
Non sono diavoli, secondo Romano, il presidente egiziano Al Sisi, quello siriano Assad e il leader iraniano Rouhani. Né, tanto meno, Vladimir Putin. Si dà anzi il caso che alcuni di loro abbiano molta esperienza di lotta contro il terrorismo, e che i primi tre conoscano senza dubbio il mondo islamico meglio degli occidentali, dal momento che essi stessi ne fanno parte.
Considerato il rifiuto USA di impegnare truppe sul terreno e la desolante debolezza che ancora una volta l’Unione Europea manifesta, l’opzione che resta è appoggiare concretamente chi sul terreno è già presente, disposto a combattere anche per non farsi sommergere.
La logica del ragionamento è impeccabile e obbedisce in fondo a meri criteri di buon senso. Spero di sbagliarmi, ma confesso tuttavia di non essere affatto ottimista circa la possibilità che il suddetto buon senso prevalga.
Preziosa risulterebbe, per esempio, la collaborazione strategica della Federazione russa, colpita più volte e in modo grave da attentati simili a quello di Parigi. Assad è stato demonizzato ed è senza ombra di dubbio un dittatore, anche se alla fine ci si è accorti (con l’eccezione di Israele) che le milizie fanatiche che lo combattono sono assai peggiori dei suoi soldati.
L’Iran, com’è noto, è già impegnato concretamente con mezzi e truppe. Gli americani da un lato fingono di non vedere, dall’altro non pongono ostacoli giacché l’intervento è utile e ha conseguito successi (per quanto parziali). Circa Al Sisi, si sta facendo strada la convinzione che il golpe militare egiziano è certamente antidemocratico, ma ha pure impedito guai peggiori.
Le affermazioni di Churchill riportate da Sergio Romano risultano insomma più che mai attuali. Se lui era disposto ad allearsi col diavolo pur di battere Hitler, i Paesi occidentali dovrebbero valutare con maggiore realismo le opzioni oggi disponibili. L’emergenza che si trovano a fronteggiare è così grave da non lasciare spazio a pregiudizi di sorta.
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