un gelido inverno

Creato il 24 febbraio 2011 da Albertogallo

WINTER’S BONE (Usa 2010)

I
Di Winter’s bone (Un gelido inverno nella traduzione italiana, una volta tanto dignitosa) si possono dire tonnellate di cose, in quanto la pellicola ha il pregio, più unico che raro di questi tempi, di riuscire a concentrare numerose tematiche e chiavi di lettura a partire da una sceneggiatura semplice, una trama, una storia, un filo logico da seguire. E pure in Winter’s bone si può rintracciare quella tendenza che è stata al centro dell’interesse della narratologia contemporanea, e cioè una struttura che costruisce un senso attraverso l’artificio del racconto e che ha trovato nella Recherche di Marcel Proust uno degli oggetti di analisi preferiti, un esito quasi spontaneo di quella letteratura francese che a partire dal XVIII secolo “inventa” il romanzo moderno e lo decostruisce con il susseguirsi di autori quali Stendhal, Flaubert, Balzac (fino ad arrivare, appunto, a Proust) e dei capolavori che hanno prodotto nell’arco delle rispettive carriere. Indicare questa chiave di lettura, tra le diverse possibili, serve a collocare Winter’s bone tra le opere nient’affatto semplici della cinematografia dei nostri giorni, e a premettere che questo è un grande film.
Ambientato in un metaforico gelido inverno per lo più dei sentimenti, il film racconta di una famiglia proveniente dalla più bassa underclass statunitense, composta da una madre ammutolita dalla durezza della vita, due figli piccoli – un bambino e una bambina – e una figlia diciassettenne, Ree, costretta ad assumere il ruolo di capofamiglia, occupandosi di ruoli tradizionalmente femminili quali la preparazione del cibo e la cura dei bambini, ma anche maschili, come lo spaccare la legna (siamo in una località montana) e la caccia. A tal proposito, in antropologia si definisce come “liminale” una condizione intermedia tra una fase particolare della vita e l’altra, cioè quello stare in mezzo a due situazioni, sostare all’ingresso di una prima di entrare a pieno nell’altra. Non c’è descrizione migliore per questo film. La protagonista ambisce alla maternità, la invidia, ma è chiamata a ignorarla per svolgere quei compiti che sarebbero del padre; sente il bisogno di comportarsi da adulto, ma non ha ancora raggiunto l’età ufficiale per essere considerata tale, mancando anche di quell’esperienza di vita vissuta che sancirebbe una maturità “ufficiosa”, riconosciuta dai propri simili prima del tempo dovuto. La posizione della sua famiglia è altrettanto ambigua, poiché prossima allo sfratto e alla dispersione dei suoi componenti. Senza dimenticare quella questione di sangue, quello screzio irrisolto tra famiglie riguardo a certe attività di dubbia moralità, che rende impossibile ogni tipo di solidarietà tra parenti e compaesani.
Dov’è finito il padre di Ree, la chiave che risolverebbe in un colpo solo tutte queste situazioni e riattiverebbe le consuetudini sociali all’interno della comunità? Lui sta all’intreccio del film come il tempo perduto al racconto di Proust: è quella ricerca di un senso compiuto in un’esistenza che barcolla tra la normalità e una sorta di perversione che spaventa, incarnata in questa famiglia che rompe gli schemi dell’interazione quotidiana tra famiglie povere, fondata sulla violenza maschile, in cui le donne diventano strumenti di durezza e di violenza, sottomesse al dolore e alla crudeltà dei propri compagni. Ree indossa i panni scomodi di un poverissimo e disperato Telemaco che rincorre il padre senza perdere di vista il declino irreversibile di quel regno di rottami e fame che è la sua famiglia. Un film complicato, crudo, che si muove con insospettata eleganza in un contesto dominato dalla violenza più cruda. Un film che inquieta, addolora, colpisce, insegna. Come un grande rituale di iniziazione colto sul farsi, coinvolge tutti a livelli diversi e trasforma tutti, dai cinefili più ossessionati agli spettatori più distratti.
L’unico dubbio è per quello scoiattolo, squartato a metà film. Non sono sicuro di avere una posizione certa a riguardo. So che alcuni sono disgustati da certi tipi di scelte, io ancora non lo so. Così, a caldo, mi sembra ingiusto; ma se è davvero importante, ancora non lo so.
Francesco Rigoni

II
Come Juno Ree è una ragazzina cresciuta troppo in fretta. Come Ann (Sarah Polley in La mia vita senza me) deve badare al sostentamento della sua famiglia nonostante tutte le avversità. Come Mattie nel recentissimo Il Grinta si è messa in testa di vendicare la morte del padre. Come Rosetta nel film dei fratelli Dardenne vive nella miseria più nera. Un personaggio femminile giovane ma per niente bambinesco, un’anti-Amelie sepolta di peso nella più triste delle realtà suburbane. Siamo in America nei nostri giorni, ma potrebbe essere il Medioevo.
Si è parlato molto e molto bene di questo Winter’s bone, secondo lungometraggio di Debra Granik che ha vinto praticamente tutto ciò che c’era da vincere: Sundance, Torino Film Festival, quattro nomination agli Oscar… Per quanto mi riguarda non riesco sinceramente a condividere tutto questo entusiasmo. Sarà che le aspettative erano alte (capolavoro è stato il termine più gettonato un po’ dappertutto, tra i critici come tra i miei amici), sarà che i film indipendenti americani di provincia ormai si somigliano tutti – stesse location, stessa luce fredda blu-grigiastra, stesse riprese un po’ traballanti, tanti silenzi interrotti da scoppi di violenza esibita in tutto il suo orrore, personaggi borderline… Non posso negare, in ogni caso, che si tratti di un bel film, specialmente in virtù dell’ottima interpretazione della protagonista (Jennifer Lawrence: vent’anni e una bellezza abbagliante) e di un finale che riesce a essere, miracolosamente, ottimista e non banale.
Alberto Gallo



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