Un giorno…

Creato il 15 ottobre 2014 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

Sembra un gioco di parole, ma mi sento più sicuro
coi progetti del passato e i ricordi del futuro

Federico Salvatore, Se io fossi San Gennaro

Riesce sempre più difficile intravedere una direzione ai nostri tempi accidentali, una rotta, un segnale dalla bussola, qualcosa. Sì, esatto, “si stava meglio quando si stava peggio”, non può venire da pensare che questo; ma è una frase troppo opportunista ed idiosincratica per dirci alcunché, quindi andiamo oltre. E direi di passare anche sopra le innumerevoli sfaccettature di una realtà che si presenta ogni giorno più kafkiana (gente in piedi con un libro fra le mani che non viene letto, “personaggi famosi” che si infliggono un gavettone per combattere una malattia, terrore improvviso per una malattia che uccide da 40 anni, ottimismo per il dopo distruggendo il prima) nonostante sembri distrarci, abituarci, catturarci, finanche a sembrarci buona, giusta.

Sembra, almeno a me, di essere tornati in quel Medioevo che si agita quando si vuole mostrare l’ignoranza. Un Medioevo in cui “la diritta via era smarrita”, in cui la diritta via è smarrita. Non posso che arrivare ad una tale conclusione quando mi vedo circondato da azioni che al più possono essere gesti scaramantici per allontanare il Male (un Male odierno, s’intende) e per preservare il poco che si ha fra le mani.

Penso, semplicemente, oggi, con tanto sobrio realismo, che sopravvivere in comune, con casa, cibo, abito, scuola, lavoro, pensione, ecc., qui, ormai, sarà un’impresa disperata, per gente civile (e che non c’è da chiedere di più, molto, al mondo: e che questa, forse, sarà già tutta un’utopia, per noi) 

Edoardo Sanguineti, Stracciafoglio, 36

Studia l’inglese, serve” (a cosa?), “Segui con le materie scientifiche, si lavora” (per cosa?), “Non fare le umanistiche, non hai sbocchi” (dove?), “Vota” (perché?), “È un tuo diritto” (e gli altri?), “Pensa a te” (ne sono capace?), “Sono tutti ladri” (come fanno a rubare?). Credo, semplicemente, che questa non sia vita. Abbiamo impiegato millenni affinché alla maggioranza della popolazione fosse garantito un minimo di decenza materiale per il proprio soggiorno su questa Terra per poi privarci immediatamente della volontà (primigenia) di operare in grande, come se lo sforzo compiuto c’avesse ormai stremato. Non c’è (più), o sono io a non vederla (ancora), quella spinta per cambiare veramente la vita; quel bisogno di essere più di se stesso; e magari fare in modo che, un giorno, qualcuno o qualcosa possa comunicare che quel tale è esistito, ha vagato un po’ per questo mondo e poi è andato, lasciando però qualche impronta dietro di sé.

Che sia, sostanzialmente, una resa? Un gettare la spugna con conseguente declino del capo, ma senza occhi vergognosi, anzi, gli occhi si colorano di malizia credendo di aver trovato un modo con cui poter riscattarsi dalla sconfitta (il modo, spesso, non è altro che la riprovevole volontà di scaricare la propria frustrazione sul primo essere che capita a tiro). Che sia, essenzialmente, un cambiamento di coordinate su cui fondare una nuova realtà? Quanto fragili sono queste coordinate lo si percepisce ad ogni piè sospinto ed una soffice insicurezza pervade uno ad uno tutti noi, chi prima chi dopo. Un torpore ci ha ormai sensibilmente, avvolto. La generazione delle piazze è scomparsa, lasciando sparuti gruppetti qui e lì e molti uccelli solitari che traggono dal ricordo di quei giorni un fuoco fatuo per restare in piedi in questi anni Duemila. Le grandi e lunghe (interminabili) discussioni sulla nuova società, su come distruggere la vecchia, su come cambiarla, sono state richiamate in panchina, mandate negli spogliatoi, fatte uscire dal campo ma se è andata bene sono potute rimanere sugli spalti (rigorosamente in curva, terzo anello).

Forse il nostro tempo è già finito; l’Europa ha avuto la possibilità di divenire guida nel mondo, ma ha miseramente sprecato questa possibilità, le linee e le idee di partenza resteranno, ma nulla di pratico (se non gli errori), poco male: altri assolveranno questo compito per noi. Ma ciò che, per forza di spazio e comunità, ci interessa maggiormente è che non è rimasta capacità sufficiente neanche per curare la nostra storia, badare al nostro futuro. Le nostre parole d’ordine sono (state) inefficaci non solo per il resto del mondo ma anche per noi, e non c’è restato altro che, come dopo qualsiasi catastrofe (che sia un forte terremoto, un’alluvione, un bombardamento a tappeto), l’uscire nottetempo dalle nostre tane per sciacallare qualcosa e portarlo a casa, non per cosa realmente è, bensì come se fosse il bottino di una grandiosa battaglia di quelle che si combattono una volta ogni trenta anni.

Verrebbe da fermare il tempo, impedirgli di procedere per evitare di portar via il poco che ancora resta (e resiste). Fermare il tempo, questo grosso ed impassibile divoratore, è ovviamente impossibile, ma altrettanto sembra esserlo il mettere un freno ai divoratori più “umani”. “Prima o poi finirà, stringiamo i denti e teniamo duro, potremo farcela”. Altre vie da percorrere non paiono esserci rimaste, molte le abbiamo bruciate in partenza ed altre abbandonate dopo pochi passi. Tutto ciò che finora abbiamo fatto c’ha portati a questa sola opzione, incapaci di reagire in qualche (altro) modo.

Chissà come sarà il mondo fra 15 anni, o nel 2050”. Una volta queste erano domande che davvero interessavano, che ponevano questioni; oggi non hanno più senso: sperare di arrivare al domani occupa già mediamente l’80% delle energie delle persone e lascia poco per pensare oltre il breve-brevissimo periodo. Quando tutto questo finirà, per merito nostro o di qualcuno o qualcosa altro, avremo paura della vita di oggi, costretta ad essere vissuta mortificando se stessa. Quel giorno arriverà, e magari riusciremo a guardare dentro di noi ed a guardarci l’un l’altro fino a desiderare di essere migliori ed a desiderare di lasciare un’eredità positiva, che possa almeno in parte compensare il passato, a coloro che verranno, se mai ne avremo la possibilità. Un giorno.




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