UN GIORNO DEVI ANDARE (Italia/Francia 2013)
Avessi scritto questa recensione subito dopo aver visto il film sarebbe iniziata più o meno così: “Per quanto mi riguarda, Un giorno devi andare è la versione noiosa di L’appartamento spagnolo. Che già di suo non è che fosse proprio un capolavoro, ma almeno faceva sorridere”. Essendo però passate 48 ore – 48 ore piuttosto piacevoli, tra l’altro, in cui non ho fatto altro che mangiare carne alla griglia, giocare a Risiko e dormire – sarò più benevolo.
Perché L’appartamento spagnolo? Perché questo film di Giorgio Diritti (Il vento fa il suo giro, L’uomo che verrà) è espressione dello stesso malessere generazionale, un malessere che ha portato/porta/porterà molti giovani a partire (non importa da dove né per dove) senza un vero perché, inseguendo aspirazioni generalmente piuttosto vaghe e spinti da motivazioni che, a ben vedere, spesso non hanno alcuna attinenza con il luogo di nascita o residenza. Nel film di Cédric Klapisch si trattava di ventenni in Erasmus a Barcellona (quindi: cazzeggio, sesso, cazzeggio ecc.), qua invece protagonista è una trentenne (che, chissà, magari dieci anni prima era stata pure lei in Erasmus da qualche parte) ancora in fuga, ma in un posto ben più desolato (l’Amazzonia brasiliana) e spinta, più che da un desiderio di sesso e cazzeggio, dalla necessità di dimenticare un evento traumatico: la morte del figlio e l’impossibilità di averne altri. La fuga, quindi, come non del tutto motivato elemento di rottura generazionale rispetto alla vita di un tempo – bella o brutta, giovane o meno giovane che fosse, ma comunque borghese – accomuna le due pellicole. Che per il resto, va da sé, non hanno molto da spartire.
Ecco, sto cercando – vuoi per il cv di Diritti, vuoi per la sensazione di disagio che questo film riesce comunque a trasmettere in modo sincero, vuoi per la bellezza di alcune immagini, che però, a dirla tutta, sanno un po’ di documentario Discovery Channel – di non essere troppo severo. Ma la verità è che Un giorno devi andare è un film molto deludente, didascalico, privo di contenuti davvero profondi, una di quelle opere che spingono la gente a sostenere che il cinema d’autore è noioso “e non succede mai niente”. Ok, alcune immagini, si diceva, sono molto efficaci, e il finale, in cui la protagonista (Jasmine Trinca, bravissima) si trova sola su un’isoletta sperduta, capace finalmente di liberarsi senza remore e senza gente intorno di tutti i suoi fantasmi, riappacificandosi con la natura e forse persino con il genere umano, è piuttosto toccante. Ma se volete davvero capire cosa significa per un “occidentale” trovarsi in un mondo altro, felice, incontaminato, lontano dai falsi problemi delle nostre esistenze quotidiane, be’, guardatevi la prima mezz’ora di La sottile linea rossa, e provate lì, sì, davvero, a trattenere le lacrime.
Alberto Gallo