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“un giorno di fuoco”: un incipit bruciante di beppe fenoglio

Da Postpopuli @PostPopuli

di Simone Gambacorta

“Un giorno di fuoco”: un incipit bruciante di Beppe Fenoglio

Dopo di che ti capita un racconto di Fenoglio e resti secco. Sei in libreria che girovaghi fra i mucchi di remainders e trovi “Un giorno di fuoco”. Questo non l’ho letto, pensi. Dai uno sguardo alla nota introduttiva di Dante Isella, che di per sé è una garanzia, e ti rincuori pure perché vedi che non è uno dei soliti papiri rompiscatole. Così, senza nemmeno accorgertene, ti affacci all’incipit della prima storia, che poi è quella che dà il titolo al volume, e cominci a leggere.

“UN GIORNO DI FUOCO”: UN INCIPIT BRUCIANTE DI BEPPE FENOGLIO

Beppe Fenoglio (gazzettadalba.it)

Per un attimo hai l’impressione di aver ficcato due dita nella presa elettrica e di aver avuto la scossa. Non perché quelle parole ti elettrizzino, ma perché ti bruciano: nel senso, semplice e vero, che sono brucianti. Di fronte a un attacco del genere non puoi che restare di stucco: «Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia».

Una furia omicida raccontata così sembra un’orchestra che suona un temporale, qualcosa che t’investe e ti butta a terra e t’inzuppa da capo a piedi: quasi ci affoghi, lì in mezzo. Del protagonista Gallesio non sai ancora niente, ma ti sembra di saperne già tutto. Ti pare di averlo capito grazie a una scintilla d’intuizione che nasce dall’attrito fra le parole.

Allora, prima di fare qualsiasi altra cosa, ti stoppi un attimo e dici: va bene, fermi tutti. Poi vai su un bookshop in rete, ordini tutti i libri del mondo sulla scrittura creativa, ne fai un mucchio e alla fine accendi il falò: che la vanità bruci, che si rubino le parole alla Mila dannunziana («La fiamma è bella») e, tanto per non lasciarci nulla, che si incarichi un angelo di quelli sopra Berlino di ringraziare il buon zio Bradbury, che sarà pure così lontano ma che quando serve sa essere anche così vicino.

Che cosa c’è alle spalle di Gallesio? Che cosa gli è successo? Che cosa lo ha portato a reagire? E come andrà a finire? Queste sono alcune delle domande che ti zampillano in mente a nemmeno un minuto dall’avvio della lettura, e sono la prova della perfetta fattura di quel brano iniziale.

Se fosse una foto, il punctum dell’incipit starebbe in una frase: «Diede la parola alla doppietta». Uno che a un certo punto della vita lascia parlare un fucile è uno che non ce la fa più. È uno che ha alle spalle un lungo tempo di sospiri. È uno che si sfoga in un giorno di ordinaria follia perché è solo che più solo non si può, se decide di farsi regista e protagonista di una piccola epopea senza via d’uscita, un vicolo cieco dove a fare rumore, più che gli spari, sono i fuochi d’artificio di una mente che non ha altre risorse se non quella di un coraggio imbizzarrito e letale. Ma Gallesio non è un pazzo, e lo dimostra la lucidità con cui evita di ammazzare la cognata e la nipotina, vale a dire la stessa che gli permette di proseguire nel piano apportando al volo una modifica: e infatti raggiunge il prete e lo fa secco. La sua freddezza e il suo impeto nascono dalla rabbia di chi solo ci è diventato, di chi è stato costretto a diventarci, di chi non trova altra soluzione che i pallettoni per per firmare un testamento di ribellione e di dolore.

da micheleafgreco.blogspot.it

Ma nell’incipit c’è anche un altro aspetto da tenere in buon conto, e che non può essere liquidato con la semplice formuletta dell’inizio in medias res, per quanto corretta. Il fatto è che l’attacco fenogliano è una spinta che t’arriva alle spalle come un’onda e ti butta nel baratro che si apre dopo il primo punto, dopo le prime undici parole. Come se uno se ne stesse a osservare un fiume dall’alto di un ponte e d’improvviso un altro lo spingesse e lo facesse cadere nel vuoto.

C’è davvero qualcosa di omicidiario, nell’avvio del racconto: la morte va raccontata col linguaggio della morte, e sentirsi precipitare nel burrone della storia, più che l’idea di stare nel mezzo delle cose, dà la sensazione di soccombere fra le cose; di schiantarsi al suolo delle parole che le dicono, quelle cose.

Però non c’è solo l’incipit: “Un giorno di fuoco” è tutto bellissimo. Tragico e bellissimo. Un racconto che ti stampa nella memoria la figura di Gallesio: la sua vicenda, il suo volto, restano come un timbro indelebile. Lo stesso schiudersi della narrazione è impeccabile e quella quindicina di pagine ti scavano più di un romanzo.

 

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