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Le influenze di Rossini, Donizetti e Bellini sono palesi nella struttura: l'aria è tripartita (con introduzione e da capo) e tutta la linea di canto, che pure già anticipa il Verdi maturo, dal recitativo al concertato richiama ora una convenzione, ora l'altra del belcantismo. E opera buffa è, ma non mi ha dato la gioia che mi sarei aspettato.
Un giorno di regno di un cavaliere, Belfiore, che si finge il re Stanislao, in modo che questi possa andare a combattere in incognita. Ma da qui in poi, tutto ciò che avviene esclude la presenza della storia nella trama di questo vecchio libretto di Felice Romani. Come sempre avviene, non si ha che un fondale di cartone, ma le dinamiche erotiche tra registri vocali hanno sempre la meglio seppure ancora senza la rigidità esclusiva delle schermaglie tra soprano e tenore da una parte e baritono dall'altra. L'opera si dipana, insomma, tra matrimoni che vanno a monte, promesse di amanti e in incognito e momenti di confusione generale nel più consueto stile protoottocentesco.
Esclusi i ruoli en travesti, che torneranno, in posizione molto più defilata, più avanti (si pensi almeno a Oscar nel Ballo in maschera), i personaggi sono tipici, riconoscibili, ma privi del carattere e dei guizzi rossiniani. Un giorno di regno, nella rigida architettura di numeri, scorre senza troppo entusiasmo davanti ai miei occhi e alle mie orecchie. Alcuni pezzi sono piacevoli - come le cavatine tramite le quali si presentano i due personaggi femminili (Grave a core innamorato e Non san quant'io nel petto) o il finale primo - ma posso dire, a essere onesto, che l'ho sentito senza riconscervi alcun genio particolare. Credo che, se fossi stato tra il pubblico di allora, non avrei avuto la lungimiranza di scommettere qualcosa sul futuro di questo compositore (che oggi, retrospettivamente, e a partire da ben altre opere, è molto importante per me).
Detto questo, val la pena almeno dire due parole sullo spettacolo a cui si riferiscono queste prime impressioni di ascolto. Si tratta dell'inaugurazione della stagione parmense nel 2010, con Donato Renzetti sul podio. Stella del cast è stata senz'altro la Marchesa del Poggio di Anna Caterina Antonacci: la cantante, come sempre disinibita e padrona della scena sul piano attoriale, non ha però la leggerezza che il ruolo richiede e tende ad appesantirlo un po'. Al suo fianco, la Giulietta di Alessandra Marianelli si distingue per un timbro più appropriato e agilità più convincenti, ma con problemi nella tenuta di voce, specie nelle note più alte.
Sul versante maschile, le cose non vanno meglio. Confermo senz'altro le impressioni positive su Paolo Bordogna, nel ruolo del Tesoriere La Rocca, sebbene il ruolo richieda altre doti; di contro, del Cavaliere di Belfiore/Stanislao e del barone di Kelbar di Guido Loconsolo, non mi sento di dir più che "cantano". Tutt'altro che privi di doti, spiccano comunque per comunicatività scenica. Meno fortunato, mi pare, l'Edoardo di Ivan Magrì: il timbro è quello donizettiano, acuto e leggero, ed è quello che ci vuole, ma la tenuta è davvero scadente e negli acuti il tenore proprio non convince. Nell'insieme, non sembra che si abbia proprio voglia di convincere lo spettatore ad approfondire la conoscenza delle opere verdiane oltre Aida, Nabucco e trilogia popolare: non mi aspetto che Un giorno di regno diventi un capolavoro, ma almeno qualche variazione interessante nei da capo mi avrebbe fatto piacere.
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