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Un giorno di settembre di dieci anni fa

Creato il 19 febbraio 2013 da Lacapa

Un giorno di settembre di dieci anni fa stavo camminando per una via del centro. Ero appena uscita da scuola, erano i miei primi giorni alle superiori, ero contentissima, mi sentivo grande. Dovevo perfino prendere un autobus per tornare a casa, la massima indipendenza che potessi immaginare dopo l’avere il motorino. Ero a piedi perché volevo andare ad aspettare il 721 – che piazza Stesicoro arriva a Nesima Superiore – in piazza Santa Maria di Gesù, a due passi dall’istituto tecnico che frequentava un ragazzino che mi piaceva e a cui piacevo quando facevamo le medie, e anche se eravamo in due classi diverse ci eravamo conosciuti in cortile. Mentre pensavo che avevo uno zaino troppo pesante, che faceva troppo caldo, che chissà se lui era ancora là ad aspettarmi, ho visto dall’altra parte della strada un paio di jeans conosciuti.

Erano un paio di jeans larghi in basso – quelli a zampa, avete capito – con delle toppe di velluto in varie declinazioni di marrone. Erano un po’ scuciti, avevano qualche buco creato ad hoc. Erano i jeans di quella mia nuova compagna di classe di cui non ricordavo il nome, quella seduta dall’altra parte dell’aula, che quel giorno mi era passata accanto e io avevo guardato quei jeans e avevo pensato, tra me e me, «ammazza quanto sono brutti». Con lei non avevo ancora mai parlato. Perché erano proprio i primi giorni, non sapevo come comportarmi e mi sembrava naturale che la mia compagna di banco – anche lei conosciuta da meno di qualche settimana – fosse la mia spalla. Sono passati dieci anni, ma la mia reazione nel riconoscere quei jeans la ricordo molto bene: imbarazzo. Ho sperato che non mi vedesse o, al limite, che non mi riconoscesse. Perché altrimenti la cortesia ci avrebbe imposto di fare un pezzo di strada vicine, di chiacchierare, e se poi non avessimo avuto niente da dirci? O ci fossimo trovate terribilmente antipatiche? E se lei avesse pensato che fossi scema?

Ho fatto il resto della strada a testa bassa, poi mi sono fermata davanti quell’istituto tecnico, ho incontrato A. e non ci ho più pensato. Fino all’indomani mattina. Ero entrata nel cortile di scuola, clamorosamente puntuale, e questa tizia mi s’è avvicinata e m’ha chiesto: «Eri tu ieri vicino piazza Santa Maria di Gesù, a piedi?». «Sì, e allora quell’altra eri tu? Sai, pensavo che non mi avessi riconosciuta» «E io ho pensato lo stesso, per questo non ho attraversato» «Sì, stessi pensieri» «L’hai fatta la matematica?» «No, e tu?» «Neanche». Quando siamo entrate in classe ho fatto attenzione all’appello, dovevo ricordarmi quel nome, che poi era subito dopo il mio, ma ancora non lo sapevo.

Del rapporto che negli anni è venuto fuori con questa tizia, mi ricordo alcuni momenti. Tipo una telefonata in cui le dicevo che del fatto che i miei genitori non mi facessero uscire di sera mi pesava l’idea di perdere dei pezzi, di non potermi fare degli amici perché in classe di che si vuole parlare? La vita era fuori e mentre gli altri la vivevano Padre mi diceva che ero ancora troppo piccola per uscire la sera. Oppure ricordo quel ragazzo che ci provava con lei, al mare, e le disse: «Hai gli occhi così belli, tipo verde bosco…». Lei gli scoppiò a ridere in faccia, corse da me e mi raccontò: «Ma l’hai sentito? Gli occhi verde bosco, io! Ma poi, “verde bosco”». O di quell’unica volta in cui prendemmo l’autobus insieme senza biglietto e scoppiammo a piangere davanti al controllore implorandolo di non farci la multa perché non sapevamo come dirlo ai nostri genitori.

Io da adolescente ero noiosa tanto quanto lo sono adesso. Odiavo andare in discoteca, soprattutto in quelle discoteche frequentate dai miei compagni di scuola, con l’obbligo dell’abitino e dei tacchi, l’ingresso in lista e i giovani rappresentanti d’istituto a vendere prevendite con sorrisi smaglianti. Avevo una cotta per uno di loro. Fascista. Che dio mi perdoni, avevo una cotta per un ragazzino che stimava Mussolini (qualche anno dopo replicai la cotta – stavolta ricambiata – con uno che aveva comprato su internet una maglietta con la faccia di Che Guevara e la croce celtica sovrimpressa a mo’ di mirino – tipo così – ma per fortuna mi annoiai dopo le prime tre citazioni di Vasco Rossi – immaginate la noia di leggere sms del tenore di «sei fresca come l’aria, sei la mia alba chiara»). Comunque, dicevo, avevo questa cotta e questa ragazza, quella dei jeans, aveva un’altra cotta, per un altro giovane rappresentante d’istituto. Andare in discoteca alla serata organizzata da loro era una specie di obbligo. Cominciai a pregare i miei genitori di darmi il permesso mesi prima, ottenuto il loro consenso comprai un vestitino e delle scarpe col tacco, mi misi perfino a dieta per sembrare più carina. Quella sera, tirata a lucido come poche altre volte, il tipo per cui avevo una cotta mi guardò e sorrise: «LaCapa, sei splendida». Col senno di poi, scommetto che l’ha detto a tutte quelle che ha incontrato, ma io ero contenta così. «Oddio, oddio, oddio – ero emozionatissima – mi ha detto che sono “splendida”. Proprio “splendida”. Non ha detto “carina”, o “simpatica”, o “questo vestito ti dona”, ha detto che sono “splendida”». Lei quasi non mi ascoltava, aveva il suo bel da fare, impegnata com’era a tentare di farsi notare dalla sua cotta, che la guardava e le sorrideva. Quando si è avvicinato per parlarle, lei ha iniziato a giocare nervosamente con la sua collana, un aggeggio Breil molto di moda, all’epoca.

Un’ora più tardi, le cotte mia e sua trascorrevano la loro serata senza degnarci della benché minima attenzione. E io e lei ballavamo musica dance in mezzo a mille altre persone, controllando l’orologio perché a mezzanotte dovevamo tornare a casa. Fu durante una canzone della Carrà remixata che la collana molto alla moda con la quale lei armeggiava poco prima esplose, disperdendo i suoi pezzi in giro per la pista da ballo. Io non trattenni una fragorosa risata, nello sguardo di lei si leggeva l’orrore. «Dobbiamo recuperare tutti i pezzi», gridò. In un attimo camminava gattoni tra le gambe di liceali provetti ballerini, impegnata a recuperare le palline metalliche di una collana con cui aveva giocato troppo. Tutti la guardavano incuriositi, lei moriva dall’imbarazzo. «Ti aiuto», feci io. E in un attimo eravamo in due, ginocchioni in un locale fighetto, a urlarci a distanza «Tu striscia di là, io striscio di qua, in dieci minuti ce la facciamo».

Poi ci fu quella volta che la gente credeva che avessimo lo stesso fidanzatino, a sedici anni. Perché a me piaceva S. e a lei piaceva S., solo che erano due S. diversi. Ed eravamo ricambiate. Quindi un sabato pomeriggio io sono uscita con il mio S. e lei è uscita con il suo S.. Ci siamo incontrate ore dopo, per andare a mangiare una pizza con i nostri compagni di classe. Ci avevano accompagnate i due S., inconsapevolmente in contemporanea, e nessuno dei due s’era fatto vedere dagli altri per via dell’imbarazzo. Quando gli amici ci videro arrivare insieme sorridevamo tantissimo. «Che è successo?», domandò Dearfriend Ballerina. «Ehhhh – sospirammo – con  S….». E nessuno capiva.

Uno dopo l’altro, gli anni si sono accumulati. E la tizia coi brutti jeans con le toppe non se n’è mai andata. Perché capita ogni tanto che invece di incontrare un’amica, incontri una che sai che ci potrai contare sempre come se fosse una sorella. Una con cui hai un trascorso di viaggi e di avventure, di racconti e confidenze, di piccole stupidaggini quotidiane. Io e Miamiglioreamica, per esempio, non ci salutiamo, non ci abbracciamo, non stiamo mai troppo vicine. Sono più le volte che ci diamo reciprocamente delle imbecilli che quelle in cui sembriamo due persone che da dieci anni si raccontano il giorno e la notte. Alcuni anni fa abbiamo pensato di perderci. Abbiamo creduto che con l’università e tutto il resto la vita ci avrebbe allontanate senza chiederci il permesso. Sarebbe stato normale.

Però non è successo. E oggi che Miamiglioreamica, la mia migliore amica, si laurea un po’ sono felice per lei. E un po’, soprattutto, sono fiera di lei. Perché è in gamba, perché si merita mille successi, perché sono certa che li avrà. E perché le voglio un gran bene, anche se glielo dico una volta all’anno se è fortunata.


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