In ricordo di Christa Wolf
(18 marzo 1929 - 1° dicembre 2011)
Il primo libro di Christa Wolf lo lessi al tempo del liceo. Non mi piaceva, quella scuola. Era frequentata da ragazzi benestanti, rampolli delle famiglie più agiate della piccola cittadina piemontese in cui sono nata e cresciuta. Adolescenti poco tormentati, che sfoggiavano abiti firmati e quell'innocente arroganza che può derivare solo dall'agiatezza economica. Io, al contrario, ero un involto di malinconia, ogni giorno imperfetta e contestatrice.
Quando la professoressa del ginnasio mi parlò di Cassandra di Christa Wolf (che aveva come protagonista un'eroina che adoravo per la sua capacità di parlare sempre nel momento sbagliato - forse perché anch'io, in quel periodo, mi sentivo in costante errore), corsi ad acquistare il libro e lo regalai a mia madre.
Non so perché non lo tenni per me. Mia madre, tra l'altro, non è mai stata un'appassionata di mitologia greca e fece fatica a seguire il flusso di pensieri di quelle pagine.
Io lo lessi qualche mese più tardi e mi piacque a tal punto che optai per un esproprio: apposi il mio ex libris sulla prima pagina del romanzo (in edizione economica, con una copertina verdestra e il disegno stilizzato di una Cassandra dai capelli corti) e, anni più tardi, quando traslocai in campagna, lo portai con me, nella pila dei "miei" libri preferiti. Come spesso accade con i libri destinati a segnare le nostre vite, ne adorai l' incipit: parole immobili, granitiche. Le ripensai quest'estate, quando, finalmente, mi trovai di fronte (anch'io - e con modestia) alla Porta dei Leoni.
Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l'hanno fissata. Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. [1]
Della Cassandra di Christa Wolf amavo la durezza e la testardaggine nel dolore; perché era così che immaginavo dovesse essere la profetessa di Troia ingiuriata da Apollo. "Mi dispiace che la mia voce fosse dura" [2] - e che pure continuasse a gridare. Così, fu un fatto abbastanza paradossale che fosse proprio la dolcezza (pur ferma) della "voce" di Medea a farmi preferire questo romanzo ( Medea - Voci, del 1996) a Cassandra.
Prima di allora, non mi ero mai soffermata a riflettere sul torto fatto a Medea.
Ho cominciato a interessarmi a Medea nel 1990. Lo stesso anno in cui la DDR [Repubblica democratica tedesca] stava sparendo dalla storia. Ho cominciato a domandarmi perché nella nostra società tutto viene consumato e nello stesso tempo si va sempre alla ricerca di un capro espiatorio. I miei primi appunti su Medea sono del 1991. Di lei conoscevo come tutti la versione di Euripide (...).
[Medea], narra Euripide, folle di gelosia e di orgoglio ferito uccide la figlia del re, quindi i propri figli.
Mentre pensavo a Medea mi venne in aiuto il caso. Una studiosa di Basilea, curatrice del sarcofago di Medea presso il museo locale mi spedì un suo articolo dal quale risulta che Euripide per primo attribuisce a Medea l'infanticidio, mentre fonti antecedenti descrivono i tentativi di Medea di salvare i tre figli portandoli al santuario di Era.
(...)
Fin dall'inizio pensavo che Medea fosse troppo legata alla vita per aver voluto uccidere i propri figli. Non potevo credere che una guaritrice, un'esperta di magia, originata da antichisismi strati del mito, dai tempi in cui i figli erano il bene supremo di una tribù, doveva uccidere i propri figli.[3]
Dopotutto, l'idea di una Medea curatrice, maestra di medicamenti piuttosto che di "Male" [4], è una chiave di lettura più rassicurante e al tempo stesso più "scomoda" di una storia e della storia al femminile. Significa rivalutare l'essenza prima del femminino (oggi come mai schiacciata, oppressa, violentata, nel modo più subdolo e detestabile), conciliando le due personalità fondanti della natura della donna: la veggente e la madre. In quest'ottica, la riscoperta del mito annoda con il presente un legame di com-prensione (storica, psicologica) che permette all'uomo e alla donna contemporanei di trovare una nuova consapevolezza del reale, hic et nunc.
[...] su tutt'e due, separati da tremila anni, si era stampata come per caso la stessa espressione, l'espressione dei perdenti che non si danno pervinti e che sanno: continueranno a perdere, continueranno a non darsi per vinti, e non per caso, non per errore né per disgrazia, bensì: volutamente. [5]
Così, tra tutte le testimonianze riguardanti Christa Wolf che in questi giorni stanno facendo il giro della Rete, quella che ho letto con maggiore interesse e piacere è stata quella di Anita Raja, la sua traduttrice italiana:
Ogni libro di Christa che ho tradotto in italiano è diventato, tra noi due, per mesi, oggetto di discussione, un'occasione per riflettere, per apprendere. Non era solo passione letteraria, voglia di venire a capo di un testo complesso. Era anche desiderio di migliorare il nostro modo di guardare il mondo, era anche ricavarne lezioni per diventare migliori. Era soprattutto bisogno di etica, ricerca di un modo accettabile di vivere.
Quest'ultimo punto è diventato particolarmente importante quando sono cominciati i rapporti diretti con Christa. Ci ha sedotto subito la sua tensione distesa, il suo piacere vigile di stare al mondo. Il rapporto con Gerhard, con le figlie, con i nipoti, con la vita quotidiana - la materia viva degli affetti, delle incombenze, degli obblighi, dei dolori e delle gioie - ci parevano sempre mescolati con naturalezza alla ricerca di senso, all'interrogazione di sé e degli altri, con rigore ma senza rigorismi. Ci piacevano sia lei che Gerhard: quel loro modo di scherzare, quella disposizione ad accogliere tutto ciò che è umano ma senza cinismo, quel modo di accettarsi, sostenersi tra loro, divergere, aiutarsi, scambiarsi affetto, idee, letture, citazioni. Erano belli. Christa è bella come si è belli quando ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola è mossa dal bisogno di verità. Vederli insieme, lei e Gerhard, rischiara. [6]
Non voglio annotare, ora, su queste pagine, altro che questi pochi ricordi. Non è mia intenzione riassumere la vita della Wolf (lo ha fatto magistralmente "The Guardian", ad esempio, in un articolo comparso ieri sul sito del giornale) né menzionare la polemica riguardante il suo ruolo di inoffizieller mitarbeiter presso la Stasi. Era del mito - che volevo parlare. Quello di Cassandra, di Medea. Quello di Rita e Manfred, della protagonista di Che cosa resta e della stessa Christa. Un "mito" che va oltre le contingenze, che diventa astrazione e saldo legame e che è destinato a trasmetterci il sapere prezioso della tenacia, l'amore per il vero, la costanza nella (r)esistenza.
Note
[1] C. Wolf, Kassandra (1983), trad. it. Cassandra, Edizioni e/o, Roma 1996, p. 5.
[2] Da "Monologo per Cassandra" di W. Szymborska.
[3] Citazione tratta da "La Medea non-violenta di Christa Wolf", di Carlo Varotti, pubblicata su Griselda Online.
[4] Euripide, nella sua Medea, definisce le donne "maestre del Male".
[5] C. Wolf, Premesse a Cassandra, Edizioni e/o, Roma 1984.
[6] Tratto dal sito delle Edizioni e/o.