Così impariamo a conoscere meglio lui, James Sveck (Toby Regbo), il ragazzino che ci aveva immediatamente intenerito e che dopo 30 minuti di girato, diventa assolutamente insopportabile con quella prosopopea di chi ha la presunzione di avere un problema, quando la verità è che non si ha alcun dramma esistenziale alle spalle, ma si è noiosamente e piattamente uguali agli altri. In una grande e affollata New York, con ritmi lenti e ripetitivi, si staglia la normale storia di un ragazzino disincantato e disinteressato alla gente che lo circonda, che osserva le vicende della sua strampalata famiglia dal buco della serratura, senza mai farsi troppo inglobare da quel mondo al quale sente di non appartenere.
Un film che racconta della solitudine, della difficoltà a relazionarsi con gli altri e dell’impossibilità di sentirsi “normali” in mezzo a tanta “anormalità”. Purtroppo però l’opera non riesce a mirare al cuore di chi guarda, non crea nessuna forma di empatia, non emoziona. Questo dolore tanto declamato, diventa solo fastidio nei confronti di un ragazzo come tanti che con lucido distacco analizza se stesso, arrivando da sé a una conclusione che già dall’inizio era ben chiara e palese. Un lungometraggio che non vuole arrivare da nessuna parte, un percorso di formazione che tale non è, perché non c’è alcuna strada da percorrere.
Neanche i ruoli collaterali che dovrebbero essere un “aiuto” al giovane protagonista – come quello della nonna esiliata in campagna o dell’imprevedibile life coach – riescono a incidere in modo notevole ed essenziale sulla crescita del personaggio che pare essere già ben consapevole di ciò che è e che solo alla fine riesce ad affermare di essere, con buona pace di chi gli sta accanto e dello spettatore. Spiace dirlo, ma la buona riuscita di una pellicola non dipende soltanto dal cast che viene usato.
Gli attori in effetti ci sono, e in genere nel ruolo che ricoprono sono piuttosto credibili, a partire da Marcia Gay Harden, la svampita madre di James che cerca rifugio nella filosofia orientale o il suo ex marito mollato dopo 24 ore di matrimonio, interpretato da Stephen Lang che nonostante la piccola parte, dimostra senza alcun dubbio molta più umanità del protagonista. L’idea di portare al cinema un nuovo e rinnovato giovane Holden dei nostri tempi – come lo stesso Faenza ha più volte affermato – oltre ad essere un’impresa assai ambiziosa, risulta quanto mai fallimentare alla luce di una trasposizione che risulta noiosa, senza sentimento e con poca verità. Se un giorno questo dolore sarà utile, si spera che film come questo non lo siano affatto.