Magazine Cultura
«È che non voglio andare all'università».
«Ma perché?».
«Perché penso che sia una perdita di tempo».
«Una perdita di tempo! L'università?»
«Sì» ho detto. «Almeno per me. Sono sicuro di poter imparare tutto quello che voglio leggendo i libri che mi interessano. Non vedo perché devo passare quattro anni - quattro anni molto costosi - a imparare un mucchio di cose di cui non mi importa niente e che quindi dimenticherò presto, solo per conformarmi a una norma sociale. E poi non sopporto l'idea di passare quattro anni a stretto contatto con gli studenti universitari. Tremo solo all'idea.»
Il problema principale era che non mi piace la gente, e in particolare non mi piacciono i miei coetanei, cioè quelli che popolano l'università. Ci andrei volentieri se ci studiassero persone più grandi. Non sono uno psicopatico (anche se non credo che gli psicopatici si definiscano tali), è solo che non mi diverto a stare con gli altri. Le persone, almeno per quel che ho visto fino adesso, non si dicono granché di interessante. Parlano delle loro vite, e le loro vite non sono interessanti. Quindi mi secco. Secondo me bisognerebbe parlare solo se si ha da dire qualcosa di interessante o di necessario.
Io mi sento me stesso solamente quando sono solo. Il rapporto con gli altri non mi viene naturale: mi richiede uno sforzo.
Io odio la Cappella Sistina. Odio che Michelangelo abbia sprecato il suo talento per arruffianarsi la chiesa cattolica.
La gente pensa che se riesce a dimostrare di aver ragione l'altro cambierà idea, ma non è così.
«Perché non ci vuoi andare (all'università)?»
Era la terza persona in tre giorni che mi faceva la stessa domanda, e sapevo sempre meno cosa rispondere. La nonna ha aspettato pazientemente, fingendo che sul tavolo ci fossero delle briciole da togliere.
Dopo un po' ho detto: «È difficile spiegare perché non ci voglio andare, posso solo dire che non c'è niente che mi attiri. Non voglio ritrovarmi in quell'ambiente. Ho passato tutta la vita coi miei coetanei e non mi piacciono granché, o forse non mi pare di avere molto in comune con loro. Per imparare mi basta leggere, che in pratica è quello che si fa all'università, e penso di poterlo fare per conto mio, senza sprecare tutti quei soldi. Potrei spenderli meglio, per cose più adatte a me.»
«Ad esempio?» mi ha chiesto.
Non ho risposto perché per un istante mi è balenato che non volevo andare all'università anche per non affrontare i cambiamenti. (...)
«Cos'è che vorresti fare?» mi ha chiesto.
«Vorrei comprarmi una casa» ho detto «Una casetta nel Midwest» (...)
«E in quella casa, cosa faresti?»
«Leggerei. Leggerei tanto, tutti i libri che ho sempre voluto leggere ma non ho potuto perché dovevo andare a scuola, e poi mi troverei un lavoro, ad esempio in una biblioteca o come portiere di notte o roba del genere, e imparerei un mestiere - come il rilegatore, il falegname, il tessitore -, e creerei degli oggetti, degli oggetti belli, e mi occuperei della casa e del giardino».
Odio quando qualcuno dice «Capisco». Non significa nulla ed è vagamente aggressivo. Ogni volta che lo sento in realtà mi suona come un «Vaffanculo».
Le persone felici cucinano bene e creano cose eleganti. Chi è felice non ha voglia di mangiare carne in scatola e frattaglie tritate. Ha voglia di mettere un vestito che gli doni, non scarpe vecchie e golfoni. Forse lo stato d'animo non influisce sul clima, ma non è detto.
Credo che nel mio cervello ci sia una specie di setaccio che impedisce un rapido (e tanto meno simultaneo) travaso dei pensieri in parole. Un po' come il filtro nello scarico della vasca da bagno; c'è qualcosa che trattiene i miei pensieri nel cervello, e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati.
Sembrava che tutti fossero in grado di accoppiarsi, di unire le proprie parti in modi piacevoli e fecondi, ma nella mia anatomia e nella mia psiche c'era qualcosa di impercettibilmente diverso e che mi divideva in modo irrevocabile dagli altri.
Ecco un'altra ragione per cui non voglio andare all'università: non voglio essere uno appena laureato che si dà un sacco di arie per il suo primo «lavoro vero», sbandierando un potere che non ha e credendo che fra un anno o due dirigerà Vogue o Vanity Fair.
Abbiamo visto un uomo e una donna, giovani (...), camminavano un po' staccati (...). Tutti e due tenevano a freno lo stesso sorriso esulante e ero sicuro che il loro era un amore appena nato. Magari si erano innamorati cenando nel giardino di un ristorante o a un tavolino sul marciapiede, magari non si erano ancora dati il primo bacio e camminavano un po' staccati perché pensavano di avere tutta la vita davanti per camminare vicino, per toccarsi, e volevano gustare quel momento prima di toccarsi il più a lungo possibile.
Quasi tutti pensano che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione, non il pensiero a dargli legittimità. È per questo che la gente vuole sempre che gli si dica «Ti amo, ti voglio bene». Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell'hangar buio della mente, nel suo clima controllato, perché l'aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente.
Non ha senso entrare in contatto così con una persona e poi andare via. Non lo capisco. Lo strano è che io sono un asociale, ma quando entro in contatto con uno sconosciuto – anche se si tratta solo di un sorriso o di un cenno con la mano, che non credo sia considerato un vero contatto ma per me lo è – mi sembra che dopo non possiamo andarcene ognuno per la sua strada come se niente fosse. (...) Immagino la sua vita come una piramide, un iceberg di cui vedo solo la punta, la punta minuscola, ma sotto la superficie la piramide si allarga, si allarga verso il basso e nel passato, sempre più indietro, tutta la vita gli sta sotto, gli sta dentro, le mille cose che gli sono successe, e il risultato è quel momento, quel secondo in cui mi ha sorriso. (…) Credo che sia questo a farmi paura: la casualità di tutto. Persone che per te potrebbero essere importanti, ti passano accanto e se ne vanno. E tu fai altrettanto. Come si fa a saperlo? (…) Andandomene mi sembrava di abbandonarlo, di passar la vita, giorno dopo giorno, a abbandonare la gente.
«Sono sicura che troverai qualcosa di adatto a te, James. Le cose si metteranno a posto da sole, vedrai. (…) E se per te andare all'università fosse proprio uno sbaglio, se effettivamente non dovesse piacerti come temi, beh, Non sarà stata un'esperienza sprecata. A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non siano molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Ora la tua ti può sembrare una sciagura che ti complica la vita, ma sai... godersi i momenti felici è facile. Non che la felicità sia necessariamente semplice. Io non credo, però, che la tua vita sarà così, e sono convinta che proprio per questo tu sarai una persona migliore. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono - un dono crudele, ma pur sempre un dono.»
Ho solo diciotto anni. Come faccio a sapere cosa vorrò nella vita?
♥ I miei scarabocchi su "Un giorno questo dolore ti sarà utile" di Peter Cameron
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